Corriere della Sera - La Lettura
Basta con la «caducazione» Le leggi vanno scritte meglio
Lingua L’Università di Pavia, in collaborazione con il Senato, attiva un master per rendere più chiare le norme giuridiche Produrre regole che siano comprensibili ai cittadini, superando le gergalità oscure, è un forte segnale di progresso civile Formule astruse Troppo spesso si leggono espressioni tipo «revocare in dubbio», «porre in essere», «siffatto», «causa scriminante», «espletare»
Che razza di giustizia è quella giustizia che non riesce a farsi capire dai cittadini? Se, come va dicendo da tempo il presidente onorario dell’Accademia della Crusca Francesco Sabatini, «nel testo normativo è la lingua che si fa legge», i legislatori dovrebbero porsi il problema della comunicazione nel momento stesso in cui valutano gli argomenti giuridici: i testi legislativi, gli atti processuali e amministrativi non sono altro che espressioni linguistiche. E lo stesso Sabatini arriva a sostenere che «le leggi ben scritte rappresentano un prototipo dell’uso della rispettiva lingua». Come dire che la salute di una lingua si vede dalle leggi e viceversa: per noi un tema urgente, se un famoso allievo di Norberto Bobbio, ex magistrato, giurista e filosofo del diritto, Luigi Ferrajoli, ha parlato di «dissesto del linguaggio delle leggi» e di «disfunzione del linguaggio normativo». Con questa consapevolezza l’Università di Pavia avvia, in collaborazione con il Senato, un Master di primo livello sulla «Lingua del diritto» che intende affrontare la sfida verso un aggiornamento e una maggiore trasparenza della lingua delle leggi.
Volute retoriche obsolete, sprechi di tecnicismi e formule oscure, improprietà lessicali e contorsioni sintattiche, persino errori di grammatica ed evidenti contraddizioni semantiche: è il repertorio di mostruosità e opacità cui spesso (e malvolentieri) il cittadino comune deve far fronte quando cerca di decifrare un testo giuridico o amministrativo. «Il buon funzionamento delle istituzioni — sottolinea Clelia Martignoni, professore di Letteratura italiana contemporanea a Pavia e vice coordinatore del master — è fra i temi più attuali. Tra le urgenze, c’è anche la necessità della chiarezza del linguaggio della legge, raggiungibile, a nostro parere, attraverso la comprensione e lo studio del fenomeno, per stabilire il principio di fondo della lealtà comunicativa, tra chi le leggi le scrive e le emana, e i fruitori spesso sprovveduti e “deboli” che le usano nella spesso disorientata nuova società».
Esattamente un anno fa, in vista del progetto pavese di ricerca e formazione, si tenne a Palazzo Madama un convegno su Le parole giuste i cui atti sono usciti di recente. Era uno scambio di punti di vista tra giuristi, specialisti del linguaggio, filosofi, letterati e storici che aveva per tema la scrittura tecnica e la cultura linguistica per il buon funzionamento della giustizia e della pubblica amministrazione.
È inevitabile che i contributi arrivino da aree pluridisciplinari, considerando le implicazioni, le diverse funzioni dei testi giuridici e il pubblico indifferenziato a cui si rivolgono, oltre alla loro complessità, dovuta al fatto che tra tutti i linguaggi speciali quello delle leggi è forse il più composito, poiché ingloba in sé una gamma infinita di altre varietà settoriali. Dunque ci si muove attratti da due poli: tecnicismi di ogni provenienza e lingua comune, gergalità multipla e chiarezza. Non facile, ma evitare «espressioni equivoche o ridondanti», per ottenere l’indispensabile coerenza, era già un’esortazione di Bobbio.
«Scrivere buone leggi — osserva Laura Tafani, consigliere del Senato per la qualità degli atti normativi — significa assicurare la tempestività e l’efficienza del procedimento legislativo senza rinunciare a garantire la giustezza e la precisione della lingua della legge». E ricorda un’acuta affermazione di Montaigne: «La parola è per metà di chi parla e per metà di chi l’ascolta», per aggiungere che lo stesso vale, probabilmente, per la legge. Fatto sta che il gusto dell’orribile (ed evitabile) burocratese appaga sicuramente chi parla e finisce per deprimere (e irritare) chi ascolta. Il ventaglio delle astrusità e degli esibizionismi gergali è molto ampio e risaputo. Si vedano avverbi e congiunzioni ricorrenti come «in allora», «altresì», «di talché», «di guisa che», «atteso che» o altre formulazioni come «revocare in dubbio», «porre in essere», «siffatto», «causa scriminante», «espletare», «caducazione di un provvedimento ablativo», e si potrebbe continuare all’infinito. Senza dire dell’abuso di stereotipi sintattici come il «si» passivante enclitico (cioè posticipato e appoggiato all’infinito) distribuito pressoché ovunque: «Può procedersi a espropriazioni», «deve farsi espressamente per iscritto», «deve osservarsi che»… Vezzi espressivi più o meno fossili che vengono elencati e presi in esame in un esemplare capitolo del saggio illuminante (e rimasto insuperato) di Bice Mortara Garavelli su Le paro
le e la giustizia (Einaudi, 2001). Ben venga, dunque, un master capace di sollecitare gli studenti a prendere coscienza del fatto che la sensibilità linguistica e stilistica nella formulazione delle leggi non è un capriccio da letterati, ma un segno di progresso civile e di tutela dei diritti. Tutto ciò, è pur vero, deve fare i conti con il livello insufficiente dell’istruzione scolastica, di cui abbiamo segnali evidenti in ogni ambito. Per constatare la scarsa preparazione linguistica dei giovani, specialmente nella scrittura, è sufficiente avere a che fare con tanti studenti che sono alle prese con la tesi di primo grado. Non è un caso se un paio d’anni fa il dipartimento di Giurisprudenza (appunto!) dell’Università di Pisa sentì l’esigenza di tornare all’abc, organizzando per gli allievi del terzo e quarto anno un corso di scrittura e grammatica della frase. Ricominciando da ciò che dovrebbe essere già ampiamente acquisito con le scuole dell’obbligo.