Corriere della Sera - La Lettura
Troppi suonatori! Ma poi arriva Haydn
Quando ti piovono in mano libri così, puoi solo ringraziare il cielo che esistano ancora autori di un tale carattere e letterature di questa stoffa. Il lettone Zigmunds Skujinš è ancora in vita, è nato a Riga nella notte di Natale di 91 anni fa e, a giudicare da certe battute di recenti interviste — riportate da YouTube e da un fortunatissimo incontro dal vivo della sua geniale traduttrice — è tuttora un vecchietto arguto e arzillo almeno quanto il protagonista del suo capolavoro. Il suo grandioso romanzo, eccellente opus magnum che spicca tra una ventina di romanzi racconti scritti dagli anni Sessanta, approda solo ora nelle librerie italiane: si intitola Come tessere di un domino, e lo leggiamo nella brillante versione approntata dalla suddetta traduttrice, Margherita Carbonaro — germanista di padre italiano e madre lettone che proprio lavorando sull’opera di Skujinš ha deciso di ridare vita all’altra metà della sua biforcuta lingua materna — per la casa editrice Iperborea. Che il libro, scritto nel 1993, arrivi solo adesso sui nostri scaffali è comunque un primato: non solo è il primo titolo lettone della casa editrice dedita da trent’anni al Grande Nord, ma finora è disponibile solo nelle versioni inglese, macedone e svedese. Chiaro che l’ostacolo alla diffusione di queste letterature, certo minoritarie ma tutt’altro che minori, è la lingua. E a maggior ragione va riconosciuto il merito di colei che ha saputo ricreare un’opera d’arte tanto golosa, esuberante e sontuosa nel nostro idioma.
Il romanzo dà parecchio da godere. Si legge con ingordigia e le sue succulente 360 pagine lasciano sul palati più fini un lungo retrogusto stuzzicante. Il sapore dominante è quello del mondo di ieri, per ampiezza di prospettive storiche e vastità di respiro par di leggere un testo di Stefan Zweig, condito dalla verve e dall’umorismo di un Gregor von Rezzori e decorato dalle raffinate sottigliezze di prosa di un Vladimir Nabokov, due autori avvolti dallo stesso esotismo orientale di Skujinš e segnati come lui dall’insanabile malinconia che aleggia sui reduci dalle rovine di un impero.
Le metafore sono degne di un Raymond Chandler: spiazzano per forza inventiva e vis comica ribaltando le situazioni più seriose con effetti perfino musicali. La rabbia della zarina furente è tutta nelle sue labbra serrate «come quelle di un trombettiere che soffia nello strumento». La tensione di un ciambellano sotto torchio risuona nel suo respiro stridente «come una sega spinta avanti e indietro da un taglialegna spossato». Altre pagine sono pregne di un lirismo struggente, e tanta varietà di registri è il quid della scrittura di Skujinš , il suo timbro, la sua estensione, il talento singolare nel mettere più variazioni in chiave. Del resto lo scrive lui stesso: «Il mondo è pieno di suonatori d’organetto e musicanti da mercato. Ma poi arriva uno che vuol far musica in modo diverso: è Haydn o Boccherini».
Eroe irresistibile della narrazione è il nonno del narratore — e assai verosimilmente un ironico alter ego dell’autore —: un signore dotato di stile, maniere e talenti tanto anacronistici quanto autentici, tanto inutili quanto preziosi, quale l’arte di indossare a seconda dell’occasione il più azzeccato e vistoso copricapo — spesso uno sfolgorante cilindro di seta —, di scegliere per i suoi spostamenti un veicolo sempre improbabile eppure insostituibile — come una carrozza i cui interni di velluto ti accolgono e proteggono come la custodia di una perla —, di trattare da abile cavallerizzo con la stessa facilità ed eleganza lo stallone più focoso e la giumenta più capricciosa — «per lui erano tutti puledri, in altre parole bambini, marmocchi» —, o di buttar lì, rivolgendosi al nipote affascinato con un indecifrabile sorrisetto sotto i baffi, commenti, frecciate, motti di saggezza, sentenze distillate da prendersi ugualmente come un enigma o come una boutade.
«È più facile infilarsi nei palazzi di Buckingham che nelle sue stalle», osservava da esperto di destrieri regali, ma poi, chiedeva provocando, «che cosa significa in fin dei conti essere duca o stalliere? Tutte queste distinzioni, paragonate all’antichità della stirpe umana, sono effimere e irrilevanti».
«Che cos’è l’essere umano?», si chiede meditabondo facendo eco al suo personaggio Skujinš che, raccontando, fa muovere gli uni accanto agli altri duchi e stallieri: li fa incontrare, ne intreccia arditamente le storie anche a distanza di secoli, ne cuce assieme spassosamente le membra sfruttando l’estro creativo di un medico militare che, sul campo delle battaglie settecentesche combattute dai russi contro i pagani turchi, raccoglie quel che resta di due uomini fatti a pezzi da un colpo di artiglieria e, per salvare il salvabile, salda la parte di sotto di un barone guerriero di Livonia con la parte di sopra di un rozzo capitano di ventura. O almeno questo è quanto avrebbe raccontato il capitano redivivo seducendo la baronessa vedova in cerca del marito scomparso: «Eberhard» (ovvero la sua metà di sotto) «vi riconosce», le aveva sussurrato prima di farla cadere nelle sue braccia.
Che potesse davvero esistere un uomo doppio, «come un brezel con due anelli o un uovo con due tuorli», sarà clamorosamente smentito dalla riapparizione di Eberhard tutto d’un pezzo. Da quell’abbraccio furbescamente ottenuto grazie alle fantasie chirurgiche del capitano però sarebbe nato il piccolino del quale, alla lontana, il nonno del narratore è il più originale dei discendenti.
Al cospetto di composizioni così audaci, la risposta alla domanda capitale posta con divertito sussiego da Skujinš suona esilarante. Che cos’è l’uomo? «È fatto di tre pezzi. Quel che è dentro di lui, quello che lo circonda e quel che dipende da come Dio ha buttato il dado».
La frase può essere presa come la chiave dell’intero romanzo il quale, il titolo parla chiaro, si svolge come una partita a domino. Il caso, o un disegno il cui rigore matematico è stabilito dal caso, decide il corso degli eventi. E, anche su percorsi fatali, inesorabili — il destino individuale o la storia di una nazione — vi è sempre un ampio margine lasciato alla sorpresa. Tanto più avvincente risulta la partita, o la lunga cavalcata che — «schizza il fango, turbina la polvere, la diligenza divora le distanze con l’avidità di un predatore» — conduce il lettore di Skujinš dal XVIII secolo dei corsetti che tagliano le schiene delle dame, delle voluminose crinoline erette come bastioni di difesa, dei Lumi, della Rivoluzione e dell’occultismo del conte Cagliostro, fino al XX secolo dei diodi, dei transistor, delle automobili e dell’improvvisa riapparsa sulla carta geografica della repubblica indipendente di Lettonia.
Seguendo fino alla fine, con la serietà impeccabile di chi gioca, o con la sovrana attenzione di chi si regge in groppa a un cavallo, i percorsi a ghirigori dell’autore, si approda — premio finale — alla più beffarda e rivelatrice delle conclusioni: «Giudicare secondo logica è un tragico errore. L’ordine del mondo non è banalmente logico». Nei momenti decisivi si può incontrare quello che ci si aspetta con la stessa incomputabile probabilità con cui si può rovesciare sul tavolo la carta o la tessera vincente.