Corriere della Sera - La Lettura
Rossobruna
Nella guerra al libero mercato vince la tentazione
Incombe il nazionalbolscevismo? Naturalmente qui non si allude alla corrente tedesca, minoritaria e sconfitta, che all’epoca di Weimar cercò di coalizzare classismo e patriottismo contro l’ordine imposto dalla pace di Versailles, come ricostruisce David Bernardini nel libro «Pugni proletari e baionette prussiane» (Biblion, pp. 274, € 20). Ci si riferisce al fatto che il rigetto della finanza globale e del libero mercato si coniuga in misura crescente, nell’Europa di oggi ma anche altrove (Usa compresi), a pulsioni conservatrici in fatto di bioetica e soprattutto all’insofferenza verso l’immigrazione dai Paesi poveri.
Insomma motivi di sinistra e di destra tendono a combinarsi, con grande scandalo di progressisti come Christian Raimo, che nel pamphlet Ho 16 anni e sono fascista (Piemme, pp. 112, € 13), si scaglia contro il filosofo Diego Fusaro, noto cultore del pensiero di Marx, accusandolo di essere un «rossobruno» (le camicie brune erano gli squadristi di Adolf Hitler) compiacente verso «il peggiore nazionalismo». Del resto un altro studioso di sinistra, Paolo Ercolani, per il solo fatto di aver accettato di fare da antagonista a Fusaro in un dibattito sul Sessantotto in programma il 3 maggio a Pietrasanta, si è visto bersagliare di messaggi indignati da parte di esponenti della sua area politica di riferimento.
Eppure le posizioni di Fusaro, ospite molto applaudito al recente convegno organizzato a Ivrea da Davide Casaleggio, non sono poi così eccentriche. Anche un autore dotato di esperienza e credibilità ben maggiori, Giorgio Galli, dibattendo con Francesco Bocchiccio nel libro Oltre l’antifascismo (Biblion, pp. 118, € 12), ha proposto alla sinistra di avviare un confronto con la destra anticapitalista su come opporsi allo «strapotere delle multinazionali». Più in generale è evidente il nesso tra la libera circolazione delle idee, delle merci, dei capitali e delle persone. E certo l’afflusso di manodopera indigente dall’estero non è la condizione più favorevole alla tutela dei lavoratori non qualificati. Insomma, se il nemico numero uno è la globalizzazione (o il famigerato «neoliberismo», fonte di ogni male), il modo più logico e coerente di combatterla, di certo il più comprensibile da parte dell’elettore medio, è alzare barriere a discapito della concorrenza in nome dello Stato nazionale, quindi dell’identità inevitabilmente etnoculturale che esso rappresenta. Dazi contro le importazioni e muri per fermare gli immigrati sono un binomio funzionale in fatto di raccolta del consenso, anche se c’è molto da dubitare sulla loro reale utilità. Come stupirsi se all’elezione di Donald Trump, alla Brexit e al successo delle forze populiste in Italia hanno dato un contributo determinante vasti strati popolari messi in difficoltà dall’apertura dei mercati?
Di fronte a questi sviluppi, che scompaginano le consuete distinzioni tra destra e sinistra con l’ascesa di formazioni difficilmente riconducibili a tali coordinate, tipo il Movimento Cinque Stelle, il richiamo all’antifascismo militante, per esempio quello proposto nel volume #Antifa a cura di Stefano Catone (Fandango, pp. 136, € 14), risulta di scarsa efficacia. In primo luogo perché, pur di dare consistenza al fantasma del «fascismo eterno», attribuisce un’importanza spropositata a gruppi come Forza Nuova e CasaPound, il cui rilievo resta «sostanzialmente marginale e sottoculturale», come lo definisce Pietro Castelli Gattinara nel volume Destra, curato da Corrado Fumagalli e Spartaco Puttini per la Fondazione Feltrinelli (pp. 119, € 12). Poi perché veicola un’ideologia di sinistra radicale del tutto legittima, ma ben lontana dal rappresentare il complesso dell’antifascismo, al quale vanno storicamente ricondotte anche figure di liberali conservatori come Benedetto Croce e Luigi Einaudi (un «liberista», che orrore…). Infine perché vorrebbe ridurre il tema dell’immigrazione alla dimensione solidaristica e umanitaria, il che significa chiudere gli occhi dinanzi ai problemi e ai conflitti, materiali e psicologici, che essa genera.
La democrazia vive un momento di grave affanno, ma a minacciarla non è certo il fascismo, che appartiene ormai al passato. E soprattutto non si può certo pensare di rigenerarla dichiarando guerra al mercato, alla globalizzazione o alle «élite finanziarie». Anche perché lungo quella rotta non si torna affatto verso il socialismo novecentesco, anch’esso largamente esaurito nelle sue diverse forme del tempo che fu. Si avanza piuttosto sul terreno minato in cui protezionismo, statalismo e nazionalismo, con dosi crescenti di xenofobia e magari qualche pennellata «rossobruna» filo-Putin, finiscono per darsi la mano.