Francesco sfida i nuovi inquisitori
Per l’invito a trattare, al Pontefice si rinfaccia il proposito di premiare l’aggressore Invece la tregua salverebbe la popolazione civile. E l’alternativa è l’olocausto nucleare
Il Papa ha affermato, nella sua recente intervista alla tv svizzera, a proposito della guerra in Ucraina, che, quando si è sconfitti, occorre avere il coraggio di alzare «bandiera bianca» e proporre un negoziato. Gli va dato atto, però, che il maggior coraggio, al momento, l’ha mostrato lui, dando voce a quello che moltissimi pensano ma pochissimi si azzardano a dire, per timore di incorrere negli strali del redivivo Sant’uffizio, in versione democratico-progressista, che inesorabilmente colpisce chiunque, per il solo fatto di auspicare una soluzione pacifica del conflitto in atto, sia annoverabile tra i seguaci dell’eresia «putiniana». Una tale soluzione, infatti, si tradurrebbe in un premio nei confronti dell’aggressore Vladimir Putin e lo indurrebbe fatalmente ad attaccare poi uno o più Paesi aderenti alla Nato, cominciando, con ogni probabilità, dalle Repubbliche baltiche. Di qui l’assoluta necessità che egli sia sconfitto sul campo e che, a tale scopo, sia fornita all’ucraina ogni possibile assistenza militare, non esclusa secondo il pensiero di autorevoli dottori delle scuole teologiche di Francia e Polonia, quali Emmanuel Macron e Donald Tusk - quella costituita dal diretto intervento di truppe dei loro Paesi e, possibilmente, anche di altri.
Trattandosi di un dogma di fede, sarebbe, ovviamente, del tutto fuori luogo cercare di verificarne la fondatezza mediante domande volte, in particolare, a sapere: a) da quali elementi di fatto possa desumersi che l’aggressore, una volta ottenuto, a seguito di negoziati con l’ucraina, un qualunque risultato per lui positivo, passerebbe poi certamente ad attaccare qualcuno dei Paesi Nato; b) come possa pensarsi a una «vittoria» sull’aggressore senza mettere in conto che, nella dimostrata impossibilità che a conseguirla possa essere la sola Ucraina, pur con tutti gli aiuti possibili ed immaginabili, dovrebbe necessariamente arrivarsi a uno scontro diretto Nato-russia, dal quale nessuno uscirebbe «vincitore» giacché lo stesso non potrebbe che finire con l’olocausto nucleare; c) come possa darsi per certo che la popolazione dell’ucraina sia, in maggioranza, favorevole alla prosecuzione della guerra, essendo stata soppressa, in quel Paese, l’attività di ogni partito o movimento politico potenzialmente avverso al suo attuale governo ed essendo stata sospesa, a tempo indeterminato, l’effettuazione di nuove elezioni.
Si spiega, quindi, come dall’entourage pontificio, siano subito partiti i tentativi di ridimensionamento delle improvvide affermazioni del Papa, sostenendosi, con tecniche da alpinismo di sesto grado, che egli, pur avendo parlato del necessario «coraggio della bandiera bianca» da parte di chi si debba riconoscere sconfitto, lo avrebbe fatto solo per riprendere l’immagine alla quale aveva fatto ricorso l’intervistatore e che, suggerendo la via del «negoziato» non avrebbe con ciò voluto intendere quella della «resa». Difficilmente il già ricordato Sant’uffizio potrebbe riconoscere validità a giustificazioni di tal genere, se non accompagnate, al più presto, da una qualche manifestazione di resipiscenza da parte del loro stesso autore. In mancanza, il Papa potrebbe tutt’al più sperare, forse, in una qualche tacita indulgenza, avuto riguardo alla sua più volte proclamata e dimostrata adesione ad altri dogmi; primo fra tutti, ad esempio, il dogma dell’emergenza climatica planetaria di origine antropica.
Ma in realtà (e fuor di metafora) il messaggio del Papa potrebbe, paradossalmente, essere accolto a una sola, impossibile, condizione, che lui stesso rifiuterebbe: quella, cioè, di abbandonare il principio (presente anche nella
Costituzione italiana) su cui si fonda, in teoria, l’attuale assetto delle relazioni fra Stati sovrani, in base quale non può mai ricorrersi alla guerra al fine di risolvere una controversia internazionale, per ritornare - visto e considerato che le guerre, comunque, continuano ad esserci - all’antica concezione secondo cui, come diceva il barone Karl von Klausevitz, la guerra altro non sarebbe se non «la continuazione della politica con altri mezzi». Ciò significava che la guerra, purché ritualmente dichiarata e fondata su di una qualche plausibile, pur se opinabile ragione, non poteva mai costituire un «atto di aggressione» e che, quindi, a chi la subiva, una volta riconosciuta l’impossibilità di sconfiggere l’attaccante, si presentava come unica ragionevole alternativa quella di chiedere l’apertura di trattative in vista di un trattato di pace da stipularsi con il minor danno possibile. E nessuno si sognava di sostenere che ciò costituisse un «premio all’aggressore», riservandosi semmai il perdente
di rifarsi alla prima favorevole occasione ma lasciando che, nel frattempo, la popolazione potesse vivere in pace e, almeno relativa, sicurezza. Attualmente, invece, nel presupposto che sia da qualificarsi come «aggressore» chiunque inizi, per qualsiasi ragione, una guerra (fatta eccezione, ovviamente, per le guerre intraprese dagli Usa nella loro autoattribuitasi qualità di poliziotti del mondo, come quella del 1999 contro la Serbia e quella del 2003 contro l’iraq), riesce facile addurre, per oscuri e inconfessabili interessi, come prioritaria e assoluta esigenza quella di dimostrare a tutti che «l’aggressione non paga»; ragion per cui sarebbe giusto e doveroso costringere un popolo (nella specie, quello ucraino) a una guerra infinita e senza speranza contro l’aggressore o, in alternativa, per «dare una lezione» a quest’ultimo, far correre all’umanità intera il rischio di un apocalittico conflitto atomico. E purtroppo non pochi finiscono per crederci.