La Verità (Italia)

Parla l’artista appena uscito con l’ultimo disco: «Durante il Covid ero arrabbiato con i politici. Da allora c’è più bisogno di libertà»

- GIULIA CAZZANIGA ROCK

Cristian Bugatti in arte Bugo. «Buongiorno, eccomi qui».

Ha appena pubblicato - anche in vinile - Per fortuna che ci sono io. Quando presenta quest’album lei dice che è «un manifesto, un grido di libertà». Che significat­o ha per lei questa parola? «Dopo la pandemia, più che mai, abbiamo tutti un gran bisogno di libertà e felicità. Io mi sento libero e felice quando ascolto i miei eroi musicali, il rock and roll e la musica in generale».

Libero da qualcosa?

«No: Vasco canta “però liberi da che cosa chissà cos’è?”. Libertà per me è essere spontaneo con gli altri, sentirmi a posto con il mio lavoro, con la mia immagine pubblica e pure privata. Non voglio che abbia i tratti di un’illusione».

Nelle 12 canzoni nuove, c’è così spesso un «tu» con il quale dialoga. In una in particolar­e - Salvo il tuo nome - svela che si tratta di Elisabetta, sua moglie.

«Per me scrivere è “comunicare a”, “essere in dialogo”. In primo luogo quel “tu” sono io: desidero essere vero, onesto, e non costruito o finto. Una decina d’anni fa cantavo Comunque io voglio te. Senza il “noi”, non starei bene».

Canta anche «sono un padre, sono un figlio, e una gran testa di cazzo».

«È per dire che non sono perfetto. Che ho bisogno di essere salvato, e che so di non potermela cavare da solo. Sono lucido, sto bene, guadagno bene. Ma non basta».

Una salvezza possibile?

«Mi ha salvato e mi salva la musica. Sono cresciuto a Cerano, nel novarese. Seimila abitanti. Non sapevo cosa fare della mia vita finché a 20 anni degli amici mi hanno invitato a vederli suonare e ho scorto quella carica nel rock che permette una vita sana».

In un altro singolo, Tito, poi la voce di un bimbo.

«Mio figlio, sì. Che ha 7 anni e dice di amare il rock. E poi c’è Zeno, più piccino».

Non vivete in Italia.

«A Bruxelles. Mia moglie ha scelto la carriera diplomatic­a e per me casa e dove ci sono loro, fosse pure su Marte. Abbiamo trascorso qualche anno a Nuova Delhi, ora ci siamo trasferiti qui. Una città piccola, ben servita, e per fortuna non sono per niente

c’è meteoropat­ico perché il clima sarebbe l’unica pecca».

Chi ha scelto?

«Abbiamo scelto insieme. Per il nostro progetto di famiglia. Quando mi ha detto che cosa avrebbe voluto fare come lavoro le ho detto subito: “Io ci sono, ti amo e ci sono”».

So invece già che non vuole parlarne in questa intervista…

«Di cosa? Lo dica pure eh (sorride, ndr)».

Di Morgan. Le vorrei chiedere perché non ne parla lui e non ne parla lei. Anche se ogni tanto qualche sofferenza vi sfugge dalle labbra.

«Non so lui, io non ne parlo perché non è interessan­te dal punto di vista artistico e poi perché ci sono dei processi in corso. La vicenda non mi compete più».

Con i suoi fan lei dialoga molto.

«Da 20 anni, sì. Oggi abbiamo un gruppo Telegram, siamo in 500, che si chiama “Io mi bugo”. Ci scambiamo informazio­ni in modo un po’ più confidenzi­ale di quel che si può fare su tv e giornali».

Slogan singolare.

«È nato da un fan, in modo spontaneo, ormai tanti anni fa. Non c’è bisogno che io le dica che non mi drogo».

Forse che lei con la sua musica riempie un vuoto?

«Se è così, è una cosa molto bella».

Chi la segue appartiene a una generazion­e in particolar­e?

«Non direi, no. In un ventennio di carriera ho visto avvicinars­i tanti giovani pure se io ne ho già compiuti 50, di anni. Sarà che i miei dischi sono uno diverso dall’altro, e che ciascuno ama qualcosa più di un altro. Per dire: tra i miei eroi c’è Bob Dylan, ma non per questo amo tutti i suoi dischi».

Gli altri eroi musicali chi sono?

«Dirglieli tutti sarebbero troppi. Spazio dai Beatles a Jimi Hendrix, dai Nirvana a Jon Spencer».

E tra quelli di oggi?

«Ce ne sono tanti anche attuali. Ascolto tra gli altri i The pastels, scozzesi, e i Man, gallesi».

Libertà è solo rock?

«No, dipende dalla propria storia. La guerra tra generi musicali è piuttosto deprimente, a mio parere. Vasco è tra i miei eroi ed è l’esempio che il genere non conta».

In tempo di Covid ci fu un tweet velenosiss­imo contro i politici. Scriveva che era «troppo comodo fregarsene dei lavoratori dello spettacolo e poi andarsene in giro con le cuffie a sentire musica».

«Sì, proponevo di sospendere gli account sulle piattaform­e digitali ai politici». Aggiungeva: «Non meritate la nostra musica».

«Sì, perché la musica fa del bene a tutti e nessuno è intenziona­to a fare il bene della musica. Gli artisti sono spesso gli zimbelli di chi siede nei palazzi del potere. Una cosa che mi chiedo insistente­mente è perché mai l’italia, che potrebbe fare festival internazio­nali io credo tra i migliori al mondo, non ne abbia nemmeno uno».

Mentre all’estero…

«In Inghilterr­a è quasi scontato: è la patria del rock, hanno festival incredibil­i come il “Reading”, in agosto. Ma a Barcellona hanno creato il “Primavera sound”, che fa numeri da record ed è di livello molto alto. Pure la Francia ha manifestaz­ioni importanti. Da noi, niente».

C’è Sanremo.

«Non ha risonanza nel mondo come quelli che le ho citato». Siamo provincial­i?

«Lo ha detto lei».

Serve la politica?

«Serve non perdersi in guerre di giardino. E lo so che non cambia niente anche se lo dico. Sono realista. Però forse è il caso di ammettere che da noi i gruppi stranieri vengono solo per mangiare la pizza e fare i loro concerti. Amo l’italia, vorrei crescesse anche in questo campo».

Si candida a direttore artistico di un futuribile festival internazio­nale?

«Ah, sarei bravissimo, ma non mi sto candidando. E poi davvero: non voglio fare il sociologo, l’analista, e soprattutt­o non l’intellettu­ale».

Cosa legge?

«Se vuole glielo dico, ma preferisco evitare di sbandierar­e volumi come fa qualcuno. C’è chi snocciola libri, film e documentar­i. Non credo che questo permetta loro di scrivere meglio canzoni. Anzi, ci sono artisti ignoranti che ne fanno di bellissime».

Fatta la premessa, ci dice cosa la appassiona in libreria?

«I libri sulle storie degli imprendito­ri».

Ah, tutt’altro campo rispetto al suo?

«Sì. Marchionne, Bill Gates, le storie di grandi mentalità. E anzi, i libri di musica e sui musicisti non mi convincono granché. Romanzi, mi piacciono quelli di Paul Auster o di Nick Hornby. Ma è svago, non si collega con la mia attività creativa. Non leggo per poi citare nelle mie canzoni. Perché si compongono più sulle emozioni». Anti-intellettu­ale.

«Non sopporto i maestrini». Facciamo qualche nome? «Meglio di no. La lista di chi pensa di stare su un piedistall­o solo perché ha compiuto gli “anta” e ha pubblicato quattro o cinque album sarebbe troppo lunga. Bob Dylan non andò a ritirare il Nobel dicendo: grazie, ma non mi importa perché sono autore di canzoni».

I premi le danno allergia? «Ne ho ricevuti, ma non mi sono mai messo in fila per gli attestati di quartiere. Perché non sono i premi a certificar­e o meno la bravura».

Leggo romanzi e biografie di imprendito­ri di valore, ma per scrivere canzoni la cultura non serve All’italia manca un grande festival internazio­nale

Rolling Stone la definì «l’inafferrab­ile rivoluzion­ario della canzone italiana», il Guardian «uno dei grandi della musica italiana». Un po’ di soddisfazi­one l’avrà avuta.

«Ovvio che sì, ma non mi sono mai adagiato sugli allori. È la fine. Non serve. Rischi di non migliorare mai».

Una parola che torna spesso associata al suo nome è ribellione. Ce n’è bisogno, oggi, di ribellarsi? Da cosa?

«Oggi più che mai, da quelli che fanno i fenomeni e pensano che insultare gli altri sia normale. I bulli vanno di moda, passano dai social alla television­e. Ma è maleducazi­one, la loro, mica ribellione. Ci sono le rockstar di Twitter e di Tiktok, e poi le rockstar quelle vere».

Un ambiente poco puro, il suo?

«Un ambiente purtroppo a volte drogato dai numeri e dall’apparire. La vera ribellione che serve è un’assunzione di responsabi­lità. Il desiderio di infondere gioia e forza alla gente con integrità e dignità. I grandi artisti del passato su questo sono rimasti sempre lucidi».

Altrimenti? Qual è il pericolo? Non sono solo canzonette?

«Altrimenti si perde sé stessi».

E allora si canta per un’élite? «Manco a parlarne, no. Guardi che la gente non è stupida. Certo, arriva a casa tardi dal lavoro, è stanca e fatica a ragionare. Accende la television­e e si beve quel che propinano. Il trash, così spesso. Ma se a cena proponessi­mo qualcosa d’altro? Le assicuro che i giovani stupiscono, su questo».

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Cristian Bugatti, in arte Bugo, è sposato e ha due figli. Vive a Bruxelles [Getty]
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