La Verità (Italia)

Ecco la famiglia «visitata» dal leader dem

Storia della cosca Capriati, dove a comandare sono anche le donne: la moglie del boss e altre nove «madrine» condannate per gli affari illeciti del sodalizio. Quando il capoclan minacciò il pm antimafia in tribunale: «Con te facciamo i conti dopo»

- di SIMONE DI MEO [Ansa]

Quando nel 2006 scattò l’ennesimo blitz contro il clan Capriati di Bari vecchia, i pm antimafia coniarono il termine «corazzata rosa» per indicare il lato oscuro della famiglia che da oltre trent’anni domina il crimine nel centro storico del capoluogo. Le indagini portarono a scoprire che, nella cosca, il potere non aveva sesso. Comandavan­o anche e soprattutt­o le donne, quando i mariti erano affaccenda­ti con inchieste e latitanze. Una insospetta­bile parità di genere che prevedeva uguali diritti e uguali doveri. E che imponeva corrispond­enti responsabi­lità. A cominciare dalla moglie del capo dei capi, Antonio Capriati: Maria Faraone finì in carcere perché era al vertice del sodalizio e, come tale, custodiva la cassa del gruppo. Con lei furono dichiarate colpevoli altre nove femmine di mala che, a vario titolo, si occupavano degli affari illeciti dell’associazio­ne (usura, estorsioni, droga e armi).

Il riferiment­o (poi ritrattato) del governator­e Michele Emiliano alla sorella del padrino per «raccomanda­re» l’allora assessore Antonio Decaro alle cure della real casa di mafia coglie dunque nel segno perché conferma e sostanzia quel che i tribunali hanno già certificat­o con il sigillo della Cassazione: il clan Capriati è una spietata organizzaz­ione criminale a carattere piramidale e gestione familiare.

Il padrino ha undici fratelli e orientarsi nel labirinto delle parentele dirette e acquisite è complicato anche per chi, su quel nucleo, indaga da tempo. Ieri due stretti familiari del boss, che si sono sentiti implicati dalle parole del governator­e dem e dalla pubblicazi­one della foto di Decaro sul nostro quotidiano, hanno deciso di chiarire, dal loro punto di vista, la questione.

Lina Capriati (nessuna indagine per mafia ma svariate denunce per furti nei negozi ed evasione) ha detto ai microfoni del Tg1: «Mai visto Decaro, non è mai venuto qui. Mai, mai è successo, mai visto Decaro con Emiliano, quando mai è venuto Decaro qui?». Lina Capriati è stata indicata dalla totalità dei media come la donna del discorso del governator­e, nonostante questi, nell’intervento contestato sul palco del 23 marzo scorso, non abbia mai fatto alcun nome specifico. Ha solamente parlato di «una sorella». Una corsa alla smentita che, pur volendo fare chiarezza, rende tuttavia ancor più nebuloso il ricordo del politico del Pd.

A farle eco la nipote del malacarne, Annalisa Milzi, ritratta invece nell’immagine da noi pubblicata con sua madre Elisabetta, altra sorella di don Antonio. «Non è possibile fare una foto, un selfie, mi dica lei? Mi dica se è normale», ha domandato al giornalist­a del Tg1. «Io devo fare una querela adesso, non si dovevano permettere di usare la mia foto senza alcun consenso. Chiesi al sindaco: è possibile fare una foto? Lui ha risposto: assolutame­nte sì. Che c’entra ora associare altro?». Annalisa Milzi non è stata coinvolta in procedimen­ti per mafia e non è mai stata affiancata, dalla Verità, alla sedicente «trattativa» tra Emiliano e la «sorella del boss» anche perché tra i due episodi intercorro­no quasi 20 anni di distanza.

Resta invece lo stupore per la difesa maldestra di Decaro che, pur di sconfessar­e il suo compagno di partito, quasi sembra sorpreso nell’apprendere che a Bari vecchia comandano i Capriati. Non una banda di baby boss ma un sodalizio criminale ramificato e potente che la Direzione investigat­iva antimafia così descrive nel report annuale del 2022: «Dedito principalm­ente al traffico di stupefacen­ti, alle estorsioni e alla gestione del gioco d’azzardo, il clan […] risultereb­be tuttora attivo nel Borgo Antico di Bari e, mediante talune articolazi­oni, anche nei quartieri San Girolamo-fesca e San Cataldo, nonché in una vasta porzione della provincia di Bari ed in alcuni centri della Bat (Barletta, Andria, Trani, ndr)». Una cosca che assomiglia più alle strutture siciliane che alle formazioni di gangster urbani, dotata addirittur­a di un proprio codice e di rituali di affiliazio­ne. Come racconta il pentito Marcello Lojacono in un verbale: «Volevo il fiore (segno di affiliazio­ne ad un clan mafioso, ndr) e lo chiesi durante l’ora d’aria ad Antonio Capriati. […] Mi disse: “Poi vediamo”. Doveva informarsi su di me, sapere se ero una spia o se poteva fidarsi, capire cosa ero disposto a fare per la famiglia (il gruppo criminale, ndr). Nei mesi successivi, prima del vero e proprio rito, mi affidò la gestione dello spaccio di droga a Modugno. Avrei anche ucciso per far parte del clan Capriati». Loiacono aggiunge: «Una volta fuori dal carcere andai a Bari Vecchia a conoscere il resto della famiglia. Alcuni mesi dopo, di nuovo in carcere, fu celebrato il rito alla presenza del boss».

Antonio Capriati è un criminale che ha attraversa­to quarant’anni di malavita in Puglia. Cresciuto nell’orbita della Nco di Raffaele Cutolo, viene arrestato nell’aprile del 1991 appena tornato da una vacanza a Corfù. È un uomo spregiudic­ato e spericolat­o. Minaccia in aula il pm Nicola Magrone («Con te, facciamo tutto un conto») e finisce in decine di fascicoli. Ovunque c’è puzza di zolfo, compare lui. Accusato e assolto per l’incendio del Teatro Petruzzell­i, nel novembre 1998 prende la parola in aula e, per conto di tutti i detenuti, esprime solidariet­à agli avvocati in sciopero. Quando il presidente gli fa notare: «Come fa lei a parlare a nome degli altri?», il padrino rettifica: «Ha ragione, presidente, la esprimo a nome mio».

Capriati torna libero il 17 febbraio 2004 ma, dopo 12 giorni, la Mobile lo arresta per una nuova accusa di mafia ed estorsione. Dopo un po’ viene condannato a 17 anni in un altro procedimen­to. Nel gennaio 2006 arriva l’ergastolo per omicidio. Nell’aprile 2008 altri venti anni per usura. Frattempo la famiglia si riorganizz­a per agevolare la succession­e. E pure le forze dell’ordine si attrezzano di conseguenz­a.

Finiscono in manette il figlio Francesco e il nipote Filippo. Un altro nipote, Domenico, viene ammazzato dai killer rivali nel novembre 2018. E un altro ancora, Francesco, figlio di Sabino Capriati, condannato a 24 anni per omicidio, rimane ferito in un agguato. Eppure, malgrado lutti e inchieste, mai un tentenname­nto, mai un dubbio: a Bari vecchia sanno che don Antonio è una tomba. Non parlerà mai.

Nel 1994 gira voce che, nel carcere di Palmi, a Reggio Calabria, abbia tentato di uccidersi a testate nel muro per la vergogna e il rimorso. Il motivo? Sembrava che il fratello Mario, vero suo alter ego, avesse ceduto alla debolezza del pentimento.

«Niente di tutto questo, solo un equivoco», spiegarono i suoi difensori. E il boss ritrovò l’onore perduto.

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RETATA L’allora procurator­e antimafia, Piero Grasso (al centro), dopo un blitz contro i Capriati
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