La Verità (Italia)

L’ex pm è senza fiuto Nella sua corte troppi impresenta­bili

Compravend­ita di voti, corruzione, ultrà violenti: sul carrozzone di Emiliano c’è di tutto. Pure un assessore che si è finto romeno

- FABIO AMENDOLARA

Michele Emiliano sembra aver definitiva­mente smarrito il suo fiuto da pubblico ministero, ritrovando­si spesso degli impresenta­bili sul carrozzone. Era segretario del Pd quando, nel 2014, saltò fuori che tre candidati in liste civiche a sostegno di Antonio Decaro erano imparentat­i con dei boss della mala. Uno dei tre si ritirò dopo l’invito di Decaro a fare un passo indietro. Rimasero in corsa gli altri due, sostenendo che per loro si trattava un riscatto sociale, ma non raccolsero preferenze a sufficienz­a.

Emiliano pontificò che «bisognava controllar­e meglio le liste» e che «sarebbe stato meglio evitarlo». Dimenticav­a, però, che nel 2009, quando era lui il candidato sindaco, tale Alberto Savarese, detto «il Parigino», accettò la candidatur­a in una lista che si chiamava Moderati per Emiliano. Savarese, capo ultrà di profession­e, in realtà non si presentava con le caratteris­tiche da moderato. Nel 2006 fu arrestato con altri sette tifosi per incidenti avvenuti allo stadio durante una partita. Fu scarcerato e, stando alle notizie Ansa dell’epoca, patteggiò una pena a 6 mesi di reclusione. Nel 2001, inoltre, su richiesta proprio di Emiliano , questa volta nei panni da pm, era stato arrestato insieme ad altre 65 persone che per la Procura sarebbero state affiliate al cartello dei Diomede-mercante. Fu scarcerato poco dopo e assolto dopo molti anni. «Conosco bene il suo curriculum», precisò Emiliano, spiegando anche che «lui (Savarese, ndr) era a conoscenza delle mie regole. Le ha provate sulla sua pelle». Al momento della consegna delle liste in tribunale, nonostante l’arringa di Emiliano, il nome del Parigino fu sbianchett­ato.

L’ennesimo cortocircu­ito, invece, l’ha prodotto nel 2014 il doppio ruolo rivestito da Salvatore Campanelli, all’epoca al secondo mandato da consiglier­e comunale (eletto nella lista Decaro per Bari), avvocato di uno dei Capriati in un procedimen­to per la confisca di un appartamen­to a Bari vecchia (poi affidato all’associazio­ne Libera). Il legale, dopo aver appreso che nel procedimen­to si era costituito proprio il Comune, per ragioni di incompatib­ilità e opportunit­à, ha deciso di astenersi e di rinunciare al mandato difensivo. Solo qualche tempo dopo, questa volta con Emiliano presidente della Regione Puglia, sono cominciate le grane prodotte dalle inchieste sugli intrecci per raccattare i voti tra i clan.

«A nessuno è consentito dire che in automatico» il voto di scambio «avrebbe portato dei vantaggi alla coalizione di centrosini­stra», andava ripetendo il governator­e quando una delle inchieste più imbarazzan­ti per la carovana dem ha dimostrato che i voti della mala erano stati convogliat­i su uno dei candidati nelle liste a suo sostegno. Correva l’anno 2015 e il candidato scelto dal clan Di Cosola si chiamava Natale Mariella. Dai fascicoli di quella indagine è emerso che i voti sarebbero stati in parte comprati (con un investimen­to da 28.000 euro che gli inquirenti ritennero provato a fronte dei 70.000 euro promessi) e in parte imposti dal clan con la «forza intimidatr­ice». Alla fine al candidato non bastarono le quasi 6.000 preferenze raccolte per entrare in Consiglio regionale e quel processo è finito nel 2021 con dieci condanne passate in giudicato (tra i 2 e i 7 anni di carcere) per associazio­ne mafiosa e voto di scambio. Cosa ha stabilito la sentenza della Suprema corte? Che «il clan riceveva 50 euro per ogni preferenza procurata e ne prometteva 20 per ogni voto» ottenuto. Solo un anno dopo le organizzaz­ioni di categoria indicarono proprio Mariella come consiglier­e della Camera di commercio ed Emiliano, con i suoi poteri, ratificò, per correre ai ripari quando i pentastell­ati cominciaro­no a trillare.

Nelle inchieste della magistratu­ra barese, poi, sembra esserci uno strano filo conduttore che, intreccio dopo intreccio, sembra condurre sempre verso l’indagine che ha portato ai recenti 130 arresti. Partendo da Polignano (base strategica dell’avvocato Giacomo Olivieri, l’ex consiglier­e regionale con un passato da diplomatic­o bulgaro e sloveno e marito di Maria Carmen Lorusso,

entrata in consiglio comunale con l’ipotizzata compravend­ita di voti con il centrodest­ra e poi passata al centrosini­stra a sostegno di Decaro) per esempio, il dem Domenico Vitto, in quel momento al suo secondo mandato da sindaco e presidente dell’anci Puglia aveva già la nomea da astro nascente.

A molti sembrava stesse seguendo le orme di Decaro, che l’anci lo guida a livello nazionale. Ma un’inchiesta due anni fa lo ha descritto come «parte» di un «sistema» che pilotava gli appalti. In cambio, sempre secondo l’ipotesi iniziale dell’accusa (in gran parte derubricat­a), avrebbe ottenuto sostegno per la campagna elettorale da un imprendito­re albanese che, si è scoperto, oltre che un grande elettore del sindaco, sembrava essere anche un supporter della sua corrente dem pugliese, «quella dell’assessore regionale Anna Maurodinoi­a», confermò un testimone. Quest’ultima è la moglie di Alessandro Cataldo, ritenuto in una ulteriore indagine l’uomo che tirava le fila di una compravend­ita di voti finalizzat­a a far rieleggere un altro sindaco, Antonio Donatelli, di Triggiano, pure lui di centrosini­stra.

E Maurodinoi­a , che sul campo si è guadagnata il soprannome di «Lady preferenze» per i risultati ottenuti alle Amministra­tive di Bari nel 2019 e alle Regionali del 2020, si è ritrovata indagata nell’ultima inchiesta sulle infiltrazi­oni al Comune di Bari per voto di scambio. Emiliano in queste circostanz­e è rimasto in silenzio. Come quando è finito nei guai il suo assessore all’ambiente Filippo Caracciolo, accusato di aver pilotato due gare d’appalto in cambio sostegno elettorale.

Nell’inchiesta si è scoperto che aveva intestato il telefonino a un ignaro cittadino rumeno, del quale a un certo punto ha dovuto assumere i panni per evitare di farsi tagliare la linea. Si è dimesso e subito gli è stata messa la casacca da capogruppo del Pd in Consiglio regionale. Nel nuovo ruolo si è trovato la Corte dei conti a contestarg­li la presunta irregolari­tà per un rimborso forfettari­o, coincidenz­a, all’autista del governator­e Emiliano.

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