La Consulta salva le toghe colpevoli
Il verdetto della Corte costituzionale cancella la radiazione automatica dei giudici che hanno ricevuto una sentenza definitiva. «Dovrà valutare il Csm caso per caso»
È destinata a far discutere la sentenza emessa ieri dalla Corte costituzionale che ha dichiarato illegittima la rimozione automatica di un magistrato condannato in via definitiva a una pena non sospesa. La Consulta era chiamata a dirimere una questione sollevata dalle Sezioni unite della Corte di cassazione, in relazione al caso di un magistrato era stato condannato, con sentenza passata in giudicato, alla pena non sospesa della reclusione di due anni e quattro mesi per avere apposto, con il consenso della presidente del collegio di cui era componente, la firma apocrifa della presidente stessa in tre diversi provvedimenti giurisdizionali. In applicazione della norma prevista dalla legge, risalente al 2006, che regola le sanzioni disciplinari ai magistrati, il Consiglio superiore della magistratura aveva quindi applicato al magistrato della rimozione, e l’interessato aveva promosso ricorso per cassazione contro il provvedimento. Nel provvedimento emesso ieri, la Corte costituzionale ha evidenziato che, secondo la propria costante giurisprudenza, la condanna penale di un funzionario pubblico o di un professionista non può, da sola, determinare la sua automatica espulsione dal servizio o dall’albo professionale. Per le toghe di Palazzo della Consulta, sanzioni disciplinari fisse, come la rimozione, sono anzi indiziate di illegittimità costituzionale. Nel provvedimento infatti si legge: «L’automatismo censurato introdurrebbe “nella sostanza una interdizione dai pubblici uffici ulteriore rispetto a quella specificamente ipotizzata (quoad delicta) dal legislatore penale, il che, anche sotto tale profilo, determina un vulnus quanto alla previa individuazione delle conseguenze derivanti dalla commissione di un determinato reato”». La norma dichiarata incostituzionale ieri, invece, ricollegava la sola sanzione della rimozione alla condanna per qualsiasi reato, purché la pena inflitta dal giudice penale superasse una certa soglia quantitativa, finendo così per spogliare il Csm di ognimargine di valutazione sulla sanzione da applicare nel caso concreto. Creando così, secondo la Consulta «risultati sanzionatori sproporzionati rispetto alle specifiche finalità della responsabilità disciplinare, in conseguenza dell’eterogeneità delle condotte suscettibili di essere sanzionate e della irragionevole sottrazione alla Sezione disciplinare (del Csm, ndr) di ogni potere di apprezzamento sulla inidoneità del magistrato condannato a continuare a svolgere le proprie funzioni». Per effetto della pronuncia depositata ieri, sarà quindi il Csm a determinare caso per caso la sanzione da applicare al magistrato, potendo comunque optare ancora per la rimozione qualora ritenga che il delitto per il quale è stato condannato sia indicativo di una «radicale inidoneità» dello stesso a svolgere le funzioni di magistrato. Una decisione certamente di buonsenso, che però arriva nel pieno delle polemiche tra il governo e la magistratura associata sulla riforma della giustizia, compresa l’abolizione del reato di abuso d’ufficio, che le toghe difendono a spada tratta e che invece gli amministratori locali temono per il rischio di sospensione per 18 mesi già in caso di condanna di primo grado non passata in giudicato e di incandidabilità in caso di sentenza definitiva. Il salvacondotto per i giudici, rischia quindi di buttare ulteriore benzina nel fuoco.