Mentre il Pd sventola la bandiera della Salis l’ungheria dice no all’ipotesi domiciliari
Per il giudice «il pericolo di fuga resta». Il padre critica Meloni, la Schlein pure, ma l’idea di candidare l’attivista non ha aiutato
(...) di fuga». Motivo per cui le «severe accuse» nei suoi confronti non cambiano e «13 mesi di carcere non sono esagerati».
Ieri la Salis è ricomparsa in aula con le catene ai polsi e alla vita, come nelle immagini che mesi fa hanno fatto esplodere il dibattito in Italia. Ed esattamente come la prima volta, è ripartita la buriana con gli stessi argomenti e la stessa indignazione affettata.
«I nostri ministri non hanno fatto una bella figura e il governo italiano dovrebbe fare un esame di coscienza», ha detto Roberto Salis, il padre di Ilaria. «Le catene non dipendono dal giudice ma dal sistema carcerario e quindi esecutivo e il governo italiano può e deve fare qualcosa perché mia figlia non sia trattata come un cane». A ruota si è scatenato il rabbioso coro progressista, capeggiato da Elly Schlein. «Dopo essere stata portata ancora una volta in aula catene ai polsi, alle caviglie e guinzaglio, i giudici ungheresi hanno deciso anche di negarle gli arresti domiciliari», ha detto la segretaria del Pd. «Uno schiaffo irricevibile ai diritti di una persona detenuta, di una nostra connazionale. Ci aspettiamo che il governo di Giorgia Meloni reagisca, subito».
Riassumendo, la versione ufficiale della sinistra è più o meno la seguente: Ilaria Salis è una sorta di martire, vittima di un sistema giudiziario totalitario e feroce, di marca fascista. Il governo dovrebbe esercitare pressione sulla dittatura di Viktor Orbán per fare sì che rilasci immediatamente Ilaria, ma visto che non lo fa è fascista anch’esso. Se volete, si tratta di una sintesi grossolana, ma a ben vedere non troppo distante dal vero.
In questo quadro si impongono alcune riflessioni. La prima è che Ilaria Salis non è stata arrestata nel corso di una purga staliniana. È accusata di un reato grave e ci sono alcuni elementi che non vanno a suo favore. Alcuni dei difensori d’ufficio mediatici della ragazza sostengono che sia una eroina antifascista e che le accuse siano risibili perché, dopo tutto, avrebbe ferito un militante di destra, cosa per nulla grave e forse pure lodevole. In una democrazia liberale, tuttavia, non conta chi sia l’aggredito: se si commettono violenze si è colpevoli, punto.
Noi ovviamente ci auguriamo che la Salis lo sia, innocente. Ma non possiamo stabilirlo sui giornali. Possiamo solo stare in attesa di un verdetto del tribunale ungherese. Possiamo, certo, inorridire per i ceppi che le vengono imposti. E abbiamo il diritto di invocare un trattamento migliore per lei. Il fatto, però, è che il nostro sdegno suona un po’ ipocrita (e tale ipocrisia non sfugge agli ungheresi), dato che le condizioni delle nostre carceri non sono molto più idilliache di quelle altrui. Gli schiavettoni e i ceppi ci sono anche qui, ma li portano poveri cristi a cui nessuno dedica un pensiero, salvo qualche sparuto militante radicale o qualche ragazza di destra. Con che coraggio invochiamo trattamenti umani se da noi i detenuti stanno senza acqua potabile e facciamo da anni collezione di richiami provenienti dalle istituzioni internazionali? Risultiamo soltanto ridicoli.
Per altro, il nostro governo ha esercitato pressione lo stesso, anche pubblicamente. Pur con grande equilibrio, il vicepremier Antonio Tajani è apparso fermo: «Io mi auguro che la signora Salis possa essere assolta, ho visto che oggi è stata portata in aula ancora in manette e catene. Non è un bel modo, non mi pare ci sia pericolo di fuga. Detto questo eviterei di politicizzare il caso se no si rischia lo scontro», ha detto a Sky. «A me preoccupa la cittadina Salis, non mi interessa se poi vogliono candidarla, ma se si deve trasformare il processo in scontro politico lo scontro politico non favorisce la signora Salis».
Ed ecco che si giunge all’ultimo dei clamorosi cortocircuiti di questa storia. Con tutta evidenza, del caso Salis ci si occupa perché lo si può usare come arma contro il governo di destra. E va pure bene, per carità. Ma occorre essere seri. Le opposizioni, in buona sostanza, rimproverano a Orbán di non essere dittatoriale come viene descritto. Vorrebbero che egli, con atto politico, agisse sul potere giudiziario, che in ogni democrazia è e deve restare indipendente. Oppure si pretende che egli riformi in un lampo il sistema carcerario. O che con un editto reale protegga la Salis e non tutti gli altri detenuti. Posto che Orbán non è obbligato ad accettare lezioni da chi non può darle (l’italia), grazie al cielo non è un monarca o un caudillo, e dunque - anche volendo - non può agire come tale: non può liberare la Salis d’imperio. E se anche potesse farlo e lo facesse, che direbbero poi i nostri editorialisti di vaglia? Si lamenterebbero ancora del rapporto tra il nostro esecutivo e quello ungherese dopo aver richiesto una corsia preferenziale per le imputate antifa?
È un bene, senza dubbio, che la nostra politica sia attenta alle condizioni di una detenuta e che provi a trattare condizioni per lei migliori. È un bene che si parli di carceri e detenuti in una nazione che di solito ignora il problema. Ma se davvero i progressisti avessero a cuore il bene di Ilaria Salis, eviterebbero strepiti, offese e pose sdegnate. Ed eviterebbero boutade sulla possibile candidatura nelle file del Pd della insegnante lombarda. Abbiamo già notato la sensibilità dei giudici ungheresi: di sicuro tramutare il processo in un circo politico ancora più grande di quello già messo in piedi negli ultimi mesi non gioverebbe all’imputata. Gioverebbe forse ai dem, questo sì. Ma sarebbe un esercizio di cinismo leggermente agghiacciante.