Dopo il rinnovo dell’intesa sui vescovi il Vaticano sogna pure un ufficio in Cina
Monsignor Gallagher apre a una nunziatura a Pechino Pompeo: «La Santa Sede è ormai un tirapiedi del Dragone»
Il controverso accordo sino-vaticano sulla nomina dei vescovi si avvia a essere il dossier geopolitico decisivo del prossimo conclave. Da lì si capirà infatti se la Santa Sede proseguirà nel suo avvicinamento verso Pechino o se, al contrario, riporterà più a Occidente il baricentro della propria politica estera. Per il momento, si va verso il terzo rinnovo dell’intesa. A parlarne è stato il segretario vaticano per i rapporti con gli Stati, monsignor Paul Gallagher, durante una intervista rilasciata lunedì alla rivista dei gesuiti americani America Magazine. «Scade il prossimo ottobre e se vogliamo andare avanti bisognerà rinnovarlo», ha detto, riferendosi all’accordo. «Crediamo ancora che l’accordo sia uno strumento utile affinché la Santa Sede e le autorità cinesi possano affrontare la questione della nomina dei vescovi. Vorremmo vederlo funzionare meglio, con più risultati, e crediamo ancora che sia suscettibile di miglioramento», ha proseguito, per poi aggiungere: «Per questo motivo, non penso che stiamo parlando di alcuna possibilità di interromperlo. Poiché riteniamo che si possano e debbano essere apportati miglioramenti, non ci sembra opportuno prendere una decisione definitiva». «La possibilità di un ufficio della Santa Sede a Pechino non è sul tavolo?», gli ha poi chiesto l’intervistatore. «Ebbene, abbiamo sempre creduto che questo sarebbe stato utile», ha replicato il prelato, precisando tuttavia che, almeno per ora, non ci sarebbe la disponibilità delle autorità cinesi verso un simile passo. Una linea, quella espressa da Gallagher, che non piace a vari settori del mondo politico ed ecclesiastico statunitensi. «I cristiani sono perseguitati dal Partito comunista cinese in tutta la Cina, e questo accordo proposto non cambierà affatto la situazione», ha dichiarato ieri in esclusiva alla Verità Mike Pompeo. «La Chiesa cattolica un tempo usava il suo potere e la sua leadership morale per abbattere un regime autoritario malvagio e senza Dio. Oggi, invece di lottare per ciò che è giusto, temo che il Vaticano sia solo il tirapiedi del Pcc», ha aggiunto l’ex segretario di Stato americano. D’altronde, in passato critiche all’accordo sino-vaticano sono arrivate da vari porporati di area «ratzingeriana», come Joseph Zen, Gerhard Müller, Raymond Burke e Timothy Dolan. Soprattutto questi ultimi due sono considerati abbastanza vicini a Pompeo. Quel Pompeo che cercò invano di bloccare il rinnovo dell’accordo sino-vaticano nel 2020 e che potrebbe entrare in una nuova amministrazione repubblicana. Questa è una delle ragioni per cui l’ala vaticana filocinese teme una vittoria di Donald Trump a novembre. Di contro, vengono guardati con maggiore simpatia i settori pro Pechino del Partito democratico statunitense, a partire dal network dei Clinton. Non solo Papa Francesco ha parlato a settembre alla Clinton Foundation ma intratteneva anche rapporti assai cordiali con l’allora inviato speciale americano per il clima John Kerry: uno dei principali fautori della distensione tra Washington e Pechino.
Ma da chi è rappresentata l’ala filocinese che preme per l’accordo sino-vaticano? Innanzitutto troviamo la Compagnia di Gesù: non a caso, a impegnarsi molto nel favorire le relazioni sino-vaticane è stato il vescovo gesuita di Hong Kong e neocardinale, Stephen Chow, che ha tenuto una posizione piuttosto accomodante verso la nuova legge sulla sicurezza nazionale, imposta de facto da Pechino all’ex colonia britannica. A sostenere la linea filocinese è anche la Comunità di Sant’egidio: a difenderla è stato, appena lo scorso gennaio, un suo noto esponente, come il professor Agostino Giovagnoli, che durante una videoconferenza per la Casa della Cultura ne ha fatto una questione di «realismo». «Oggi e anche forse nei prossimi anni converrà parlare con la Cina perché è improbabile un cambiamento repentino del regime cinese», ha detto. Membro del comitato scientifico del Confucio Institute dell’università Cattolica di Milano, Giovagnoli presentò nel 2019 il volume «L’accordo tra Santa Sede e Cina» assieme ad Andrea Riccardi e a Romano Prodi: due altri fautori dell’avvicinamento alla Cina.
Certo, in passato è stato spesso ripetuto che l’accordo sino-vaticano avrebbe una dimensione esclusivamente pastorale. Tuttavia le cose non
stanno esattamente così. Gallagher ha infatti sottolineato che la Santa Sede auspicherebbe l’apertura di un ufficio a Pechino: il che vuol dire che quell’intesa presenta tratti di natura diplomatica e politica. Del resto, l’ipotesi dell’apertura di un ufficio di collegamento era stata avanzata già dal segretario di Stato vaticano, Pietro Parolin, l’anno scorso. E allora è ovvio chiedersi: che cosa accadrebbe se un domani la Santa Sede aprisse un ufficio a Pechino? È, in particolare, doveroso domandarsi se l’eventuale apertura di un ufficio possa, in caso, preludere a una svolta diplomatica: ricordiamo infatti che, al momento, la Santa Sede è uno dei pochi Paesi che riconoscono Taiwan.
«Funzionari vaticani hanno sottolineato che l’apertura di un ufficio a Pechino non avrebbe nulla a che fare con lo stato delle relazioni diplomatiche né suggerirebbe un imminente trasferimento delle relazioni diplomatiche da Taiwan a Pechino», riferì l’associated Press a luglio, mentre il Vietnam accettava di aprire un ufficio della Santa Sede nel suo territorio. È però proprio il caso del Vietnam a destare
preoccupazione sulla questione cinese. A gennaio, pochi mesi dunque dopo l’apertura dell’ufficio della Santa Sede, una delegazione del Partito comunista vietnamita è stata ricevuta da Papa Francesco in Vaticano. Segno che i legami tra la Santa Sede e Hanoi si stanno intensificando e potrebbero sfociare prima o poi nell’avvio di relazioni diplomatiche ufficiali. Non è dunque escluso che qualcuno voglia replicare questo schema con il Dragone. Il problema è che Pechino ha più volte violato i termini dell’accordo sui vescovi e che i cattolici cinesi continuano a essere sottoposti a un processo di indottrinamento socialista (la cosiddetta «sinicizzazione»): non esattamente una prospettiva incoraggiante per proseguire nella distensione con il Dragone.
L’ex segretario di Stato americano alla «Verità»: «I cristiani sono perseguitati dal regime, l’accordo non cambierà la situazione»
Una svolta diplomatica potrebbe influire pure sulle relazioni con Taiwan, riconosciuto da pochi Paesi Tra essi c’è anche lo Stato Pontificio