La transizione Ue affossa il Sud
Quasi il 60% delle colonnine per le elettriche è al Nord. La maggioranza degli immobili da riqualificare è nel Mezzogiorno che rischia la desertificazione. La sinistra plaude
Che il pacchetto europeo sul Green deal metta in difficoltà le fasce meno abbienti della popolazione, rientra un po’ nella logica delle cose: chi sarà in grado di spendere non meno di 25.000 euro (nonostante gli incentivi) per cambiare l’auto e passare all’elettrica? Chi potrà riqualificare casa mettendo in conto un esborso che parte da 30.000 euro ma può arrivare a superare i 60.000 a seconda della carta d’identità dell’abitazione? Così come è altrettanto evidente che la transizione ecologica, che si porta dietro anche quella digitale, innescherà (e in parte sta già succedendo) una trasformazione delle professioni che può attecchire (serve formazione continua) nei territori più ricchi e strutturati e creare «deserti» in quelli già oggi in astinenza da lavoro.
Insomma, uno dei grandi rischi «verdi» è che il nuovo processo di trasformazione industriale e sociale allarghi ancor di più le disparità tra le fasce della popolazione e le differenze tra il Nord e il Sud, con un risvolto, ma fino a un certo punto, paradossale: la sinistra che da anni avversa i progetti autonomisti, proprio perché accusati di essere il cavallo di Troia del secessionismo, diventerebbe il maggior sponsor di una secessione di fatto, grazie a una campagna green che va oltre ogni limite del buon senso. Un bel risultato per i Bonelli (leader dei Verdi), Landini (Cgil) e Shlein (Pd) di turno.
Quello che per tanti versi è un discorso logico, man mano che dalle parole si passa ai fatti viene corroborato dai numeri. Del costo delle auto elettriche siamo più o meno tutti al corrente, come del fatto che dobbiamo prepararci all’invasione delle low cost cinese prodotte bypassando i paletti ambientali che abbiamo imposto all’europa, meno noti sono i numeri sull’evoluzione green del Paese.
L’auto elettrica al momento ha un senso solo nei centri delle grandi città, per le brevi percorrenze e la possibilità di evitare di pagare i ticket ecologici. Ma per diventare un fenomeno di massa dovrebbe diventare affidabile (a prescindere dal discorso sicurezza che resta centrale) sulle lunghe percorrenze. Austostrade, superstrade, provinciali. Bene. Come siamo messi a colonnine. Un’analisi realizzata da da Transport&environment, organizzazione ambientalista europea indipendente, di ci dice che il 60% dei punti è concentrato in sole 5 regioni e che da qui al 2030 i centri di ricarica dovranno crescere di quasi sette volte rispetto al numero attuale per stare al passo con le previsioni euro. Le regioni, manco a dirlo, sono tutte al Nord, tranne il Lazio: Lombardia, Veneto, Piemonte ed Emilia Romagna. «La percezione tra molti italiani è che la rete di ricarica attualmente disponibile sia insufficiente a garantire serenamente il passaggio all’elettrico. Ma è una percezione da correggere, «evidenzia Carlo Tritto, policy officer per T&E Italia, «abbiamo un buon livello di diffusione delle colonnine, ma a oggi è concreto il rischio di un’italia “a due velocità”, con un Nord dove la ricarica pubblica è già piuttosto capillare e un Centro-sud, invece, dove la rete è chiaramente insufficiente e la sfida appare più difficile».
Veniamo alla casa e alla riqualificazione energetica imposta dalla recente direttiva Ue. È un fatto che l’italia sarà probabilmente il Paese Ue più zavorrato, avendo uno tra i patrimoni immobiliari più vetusti. Così come è un fatto che la situazione più critica è quela el Mezzogiorno dove la maggior parte delle case ha un’età superiore ai 50 anni e un’ulteriore significativa quota risulta edificata tra il 1971 ed il 1990. E dove le situazione di «sommerso», che dovranno per forza di cose venir fuori, sono con ogni probabilità più numerose rispetto al Nord.
Infine c’è il lavoro. Dove le situazioni di difficoltà si registrano un po’ ovunque. Basti pensare a Stellantis e a quanto sta succedendo, causa transizione, sia a Mirafiori sia a Melfi con la conseguente crisi dell’indotto. Ma è evidente che le possibilità di ricreare un nuovo tessuto industriale che ha Torino sono diverse da quelle della Basilicata.