Mascherine cinesi, chiesti 16 mesi per Arcuri
L’ex commissario all’emergenza è accusato di abuso d’ufficio per la fornitura di 800 milioni di dispositivi pagati 1,25 miliardi Fu lui a firmare i contratti con i consorzi che, secondo gli inquirenti, hanno fornito materiale non conforme alle normative
A quattro anni dall’inizio della pandemia, per il clamoroso e discusso affare da 1,25 miliardi di euro per 800 milioni di mascherine considerate in buona parte non idonee, si avvicina il momento delle risposte, almeno di quelle giudiziarie. Il giudice dell’udienza preliminare Mara Mattioli si appresta a decidere se mandare a processo 14 imputati (dieci persone fisiche e quattro società o persone giuridiche), accusati a vario titolo di traffico di influenze illecite, abuso d’ufficio, autoriciclaggio, riciclaggio, frode nelle pubbliche forniture, falso ideologico (per induzione, ovvero ingannando il Cts), oltre agli illeciti amministrativi collegati ai reati commessi a vantaggio delle società. Ma soprattutto dovrà decidere se accogliere la richiesta di condanna a 16 mesi di reclusione per abuso d’ufficio avanzata ieri dai pm nei confronti di Domenico Arcuri, all’epoca commissario straordinario per l’emergenza Covid, l’uomo che ha firmato i contratti con i consorzi cinesi che hanno fornito i dispositivi di protezione a un prezzo non proprio concorrenziale, come ha raccontato in anteprima questo giornale, svelando l’affare.
Arcuri durante il laborioso procedimento è stato accusato anche di corruzione e peculato, contestazioni che la Procura di Roma ha successivamente ritirato. In particolare a colpire era stata la rapidità dell’istanza di archiviazione per l’accusa di corruzione, presentata pochi giorni dopo l’iscrizione sul registro degli indagati.
Resta la contestazione di abuso d’ufficio, un reato che il Parlamento è in procinto di abolire. Per questo i legali del vecchio commissario sono particolarmente agguerriti. La difesa «ha chiesto l’assoluzione perché il fatto non sussiste» dopo aver scelto per il proprio cliente, unico degli imputati, il rito abbreviato, che garantisce uno sconto di un terzo della pena e costringe il giudice a decidere sulla base delle prove raccolte durante le indagini e non su quelle formate in un pubblico dibattimento. Gli avvocati hanno specificato: «Arcuri non ha mai inteso difendersi dal processo, ma nel processo; si è sempre reso disponibile con l’autorità giudiziaria a rendere interrogatorio e a fornire chiarimenti in ogni fase delle indagini». Ma subito hanno aggiunto: «L’iter dell’udienza preliminare ha subito diversi rinvii che ne hanno prolungato la durata sino ad oggi. Nel frattempo, il Senato ha approvato in prima lettura il disegno di legge che abroga il reato di abuso d’ufficio, il cui testo è ora in discussione alla Camera. Non abbiamo mai auspicato l’intervento di una legge “salvifica” e ci batteremo per ottenere l’affermazione della piena e totale innocenza di Arcuri».
Ora bisognerà vedere se arriverà prima la decisione del giudice (la prossima udienza è prevista per il 27 maggio) o l’abolizione del reato.
Il manager è accusato di abuso d’ufficio insieme con Antonio Fabbrocini, suo vecchio braccio destro e Rup delle aggiudicazioni per le forniture sotto esame, e Andrea Tommasi, la mente dell’operazione. Un reato che sarebbe stato commesso «in concorso e con mutuo accordo» con lo stesso Tommasi.
Le violazioni contestate sono diverse: per esempio non sarebbe stata rispettata la vecchia norma che impone alla pubblica amministrazione di stipulare i contratti nella forma scritta, cosa che per la mediazione non sarebbe accaduta, come non ci sarebbe stato il rendiconto delle spese della struttura commissariale coperte dal Fondo speciale costituito presso la presidenza del Consiglio dei ministri.
Non è finita: Arcuri e Fabbrocini, «in violazione dell’obbligo di imparzialità» previsto dal decreto legge 18 del 2020, avrebbero concesso anticipi solo a Tommasi oltre ad avergli «consentito ripetutamente l’integrazione dei documenti di corredo delle forniture giudicate non idonee».
Il capo d’imputazione, nel prosieguo, precisa meglio le accuse: gli accusati avrebbero «omesso intenzionalmente di formalizzare e palesare il rapporto di mediazione che la struttura commissariale costituiva e intratteneva con Tommasi, lasciandolo irresponsabile delle importazioni». Cioè sulle mascherine non sarebbe stata prevista nessuna responsabilità per gli intermediari. Inoltre avrebbero concesso alle società rappresentate da Tommasi «anticipazioni dei pagamenti […] prima di ogni verifica in Italia sulla qualità delle forniture e validità dei documenti di accompagnamento». Tutte note dolenti della fornitura. Gli altri importatori dovevano, invece, pagare di tasca propria e per questo gli indagati, «abusando del loro ufficio, avrebbero di fatto garantito a Tommasi «un’illecita posizione di vantaggio patrimoniale». Nella richiesta di rinvio a giudizio è precisato che in questo mondo l’imprenditore aveva ottenuto «la facoltà di avere un rapporto commerciale con la pubblica amministrazione senza assumere alcuna responsabilità sul risultato della propria azione e sul risultato delle forniture […] rivelatesi largamente inidonee; la quasi totale esclusiva nell’intermediazione di fatto delle forniture […]; l’opportunità di monetizzare, in tal modo, il credito illecito derivante dal traffico penalmente rilevante mediante l’incasso delle provvigioni; l’assenza di controllo pubblico sull’importo delle provvigioni, in danno del Fondo costituito presso la Presidenza del Consiglio dei ministri». Non è mai stato chiarito dai pm perché Arcuri abbia avvantaggiato in questo modo il pool di mediatori guidati da Tommasi, che secondo una mail scambiata da due degli imputati, il cinese Cai Zhongkai (che attraverso gli avvocati Giulia Bongiorno e Alessandro Scaccia ha presentato istanza di patteggiamento) e l’ecuadoriano Jorge Solis, avrebbero accumulato provvigioni per 203,8 milioni di euro, di cui circa un terzo sarebbero finite nella rete dei sequestri dopo il loro arrivo in Italia.
Evidentemente per i magistrati Arcuri avrebbe imbrogliato le carte mosso solo dall’amor di Patria, mentre i suoi mediatori lo avrebbe ingannato. Al suo più stretto collaboratore, Fabbrocini, sono contestati anche la frode in pubbliche forniture e il falso ideologico, ad Arcuri no. Lui, al contrario dell’altro pubblico ufficiale, avrebbe favorito Tommasi & c. senza aver capito che le mascherine fossero farlocche.
L’inchiesta ci restituisce un’immagine del manager a cui Giuseppe Conte aveva messo in mano la salvezza del Paese che quasi intenerisce. Un uomo intorno al quale banchettano mariuoli, senza che lui si accorga di nulla. Tanto che a otto imputati è contestato il traffico di influenze illecite e il trafficato, a propria insaputa, sarebbe stato proprio Arcuri. In particolare il giornalista Mario Benotti, nel frattempo deceduto, insieme con la moglie e un loro amministratore, avrebbe sfruttato le «proprie relazioni personali e occulte con Arcuri […] ottenendo che quest’ultimo assicurasse ai partner di Benotti un’esclusiva in via di fatto nell’intermediazione delle forniture» di dispositivi di protezione e accreditava così Tommasi presso il commissario. E questi «garantiva» alla presunta cricca la possibilità di selezionare le società assegnatarie della fornitura monstre e un filo diretto tra governo e consorzi cinesi per la soluzione di tutti i problemi legati alla commessa, dalle questioni logistiche alla «soluzione delle anomalie documentali».
Perché chi trova(va) un Arcuri, trova(va) un tesoro.
Il manager è l’unico imputato che ha optato per il rito abbreviato
Il reato contestato potrebbe essere abrogato prima della sentenza