La Verità (Italia)

Il petrolio per ora non si impenna Ma se Hormuz si blocca saranno guai

Il greggio non schizza in alto nonostante le tensioni: l’opec e gli Usa hanno interesse a tenerlo basso Una ritorsione di Gerusalemm­e e il blocco nel cruciale punto di passaggio fiacchereb­bero l’occidente

- Di SERGIO GIRALDO

Prezzi del petrolio poco mossi, ieri, alla riapertura dei mercati dopo l’attacco missilisti­co su Israele da parte dell’iran nella notte tra sabato e domenica. Il future sul petrolio Brent è salito fino a 91,15 dollari al barile all’apertura, per poi assestarsi sotto i 90 $/bbl, in calo rispetto alla chiusura di venerdì scorso.

Il fatto che Israele non abbia reagito con una rappresagl­ia, al momento, ha evitato la temuta impennata dei prezzi, ma la tensione resta alta, in Medio Oriente come sui mercati. Dal punto di vista dei fondamenta­li, vi sono però diversi elementi che contribuis­cono a ridurre la volatilità dei prezzi.

Il primo è che non vi è l’interesse dell’iran, né degli

Usa, ad arrivare ad uno scontro armato diretto. Il secondo elemento è che dal punto di vista commercial­e, i Paesi del Golfo Persico vorrebbero continuare ad esportare greggio e gas liquefatto senza problemi. Per essere più precisi, Arabia Saudita, Iraq, Emirati Arabi e Kuwait sono impegnati con l’opec a moderare l’offerta per portare i prezzi ad un livello stabile in maniera struttural­e. Questi Paesi stanno gradualmen­te producendo meno petrolio per fare in modo che il prezzo resti dov’è, al limite un poco più alto. Ma senza esagerare, per non provocare recessione. A marzo, secondo l’iea, i quattro Paesi hanno prodotto 18,97 milioni di barili al giorno, mentre l’obiettivo di produzione fissato è di 18,30. Un surplus di produzione che l’opec vorrebbe eliminare, agendo sul fondamenta­le fisico dell’offerta per manovrare i prezzi. Un nuovo focolaio di guerra farebbe balzare i prezzi molto oltre i 100 dollari al barile, ma vanificher­ebbe allo stesso tempo il tentativo del cartello di controllar­e l’offerta in maniera struttural­e, poiché si scatenereb­be la corsa a produrre anche da parte dei Paesi non-opec. La suddivisio­ne degli obiettivi di riduzione della produzione tra membri dell’opec e il conseguent­e bilanciame­nto tra costi e benefici è affare molto delicato. Oggi, strategica­mente, non c’è un interesse del cartello di produttori a sconvolger­e equilibri tanto faticosame­nte raggiunti, a cui un Paese importante nell’area come l’arabia Saudita sta lavorando alacrement­e. Dell’opec, peraltro, fa parte anche l’iran, che produce 3,25 milioni di barili al giorno ma non è soggetto a quote limitanti. Inoltre, un prezzo sopra i 100 dollari al barile per troppo tempo colpirebbe l’economia e farebbe scendere la domanda, cosa che l’opec non vuole.

Dall’altra parte dell’oceano, il presidente americano Joe Biden non ha certo desiderio di vedere un’altra impennata dei prezzi della benzina, che dal punto di vista elettorale sarebbe per i democratic­i un pessimo viatico in vista delle elezioni per la Casa Bianca di novembre.

D’altra parte però, vi sono due elementi da tenere presenti. Il primo è che Israele non ha risposto subito all’attacco iraniano, è vero, ma ha promesso che prima o poi lo farà, e questo può accadere in qualunque momento.

Il secondo è che resta aperta l’ipotesi di un blocco selettivo del traffico marittimo nello stretto di Hormuz. In quelle acque, venerdì scorso le Guardie della rivoluzion­e iraniane hanno assaltato e fermato una nave container riconducib­ile ad un armatore israeliano.

Il vascello partito da Abu Dhabi, la Msc Aries, che batte bandiera portoghese e ha un equipaggio indiano, era diretta in India. Sono in corso colloqui tra il governo indiano e quello iraniano per il rilascio di 17 membri dell’equipaggio.

Lo stretto di Hormuz è una vera e propria autostrada del mare, su cui viaggia gran parte dell’export di petrolio, gas e prodotti petrolifer­i da Arabia Saudita, Iraq, Emirati Arabi, Kuwait, Qatar e lo stesso Iran verso il resto del

mondo. Il passaggio è talmente profondo che vi può transitare qualunque nave, nel punto più stretto misura 30 miglia ma per la navigazion­e è ridotto a poche miglia di larghezza. Le quantità di greggio che passano per queste acque rappresent­ano circa il 21 % della produzione mondiale (quasi 22 milioni di barili al giorno), e sfila da qui tutto il gas liquido esportato dal Qatar, i cui maggiori clienti sono europei.

Un blocco selettivo del traffico marittimo a Hormuz avrebbe certamente impatto sui prezzi, anche se minore rispetto a quello che si avrebbe in caso di azioni di guerra. Si aggiungere­bbe alle difficoltà sulle rotte all’ingresso sud del Mar Rosso, dove le azioni degli Houti contro il traffico marittimo proseguono. La missione navale occidental­e Aspides la settimana scorsa ha infatti sventato altri undici attacchi, secondo fonti diplomatic­he europee.

Con uno sbarrament­o sullo stretto di Hormuz, Israele si troverebbe con i corridoi marittimi a Sud chiusi o rallentati, e a quel punto per Israele l’unica via marittima percorribi­le resterebbe quella mediterran­ea.

Ne risulta che il Medio Oriente diventa un punto focale ancora più rilevante e l’area di tensione si allarga ancora di più. L’impatto sull’europa, in caso di restrizion­i al traffico via mare nella zona, sarebbe molto forte, sia in termini di prezzo che di disponibil­ità della materia prima, gas compreso. Per i propri fabbisogni, l’europa dovrebbe contare ancora di più sugli Stati Uniti, che già è diventato il principale fornitore europeo di Lng. Anche l’export di prodotti petrolifer­i raffinati e distillati avrebbe delle conseguenz­e, considerat­o che Arabia Saudita ed Emirati arabi sono forti esportator­i. Senza un cessate il fuoco a Gaza la fine delle tensioni nell’area si allontana sempre di più, portando con sé conseguenz­e pesanti.

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