Il petrolio per ora non si impenna Ma se Hormuz si blocca saranno guai
Il greggio non schizza in alto nonostante le tensioni: l’opec e gli Usa hanno interesse a tenerlo basso Una ritorsione di Gerusalemme e il blocco nel cruciale punto di passaggio fiaccherebbero l’occidente
Prezzi del petrolio poco mossi, ieri, alla riapertura dei mercati dopo l’attacco missilistico su Israele da parte dell’iran nella notte tra sabato e domenica. Il future sul petrolio Brent è salito fino a 91,15 dollari al barile all’apertura, per poi assestarsi sotto i 90 $/bbl, in calo rispetto alla chiusura di venerdì scorso.
Il fatto che Israele non abbia reagito con una rappresaglia, al momento, ha evitato la temuta impennata dei prezzi, ma la tensione resta alta, in Medio Oriente come sui mercati. Dal punto di vista dei fondamentali, vi sono però diversi elementi che contribuiscono a ridurre la volatilità dei prezzi.
Il primo è che non vi è l’interesse dell’iran, né degli
Usa, ad arrivare ad uno scontro armato diretto. Il secondo elemento è che dal punto di vista commerciale, i Paesi del Golfo Persico vorrebbero continuare ad esportare greggio e gas liquefatto senza problemi. Per essere più precisi, Arabia Saudita, Iraq, Emirati Arabi e Kuwait sono impegnati con l’opec a moderare l’offerta per portare i prezzi ad un livello stabile in maniera strutturale. Questi Paesi stanno gradualmente producendo meno petrolio per fare in modo che il prezzo resti dov’è, al limite un poco più alto. Ma senza esagerare, per non provocare recessione. A marzo, secondo l’iea, i quattro Paesi hanno prodotto 18,97 milioni di barili al giorno, mentre l’obiettivo di produzione fissato è di 18,30. Un surplus di produzione che l’opec vorrebbe eliminare, agendo sul fondamentale fisico dell’offerta per manovrare i prezzi. Un nuovo focolaio di guerra farebbe balzare i prezzi molto oltre i 100 dollari al barile, ma vanificherebbe allo stesso tempo il tentativo del cartello di controllare l’offerta in maniera strutturale, poiché si scatenerebbe la corsa a produrre anche da parte dei Paesi non-opec. La suddivisione degli obiettivi di riduzione della produzione tra membri dell’opec e il conseguente bilanciamento tra costi e benefici è affare molto delicato. Oggi, strategicamente, non c’è un interesse del cartello di produttori a sconvolgere equilibri tanto faticosamente raggiunti, a cui un Paese importante nell’area come l’arabia Saudita sta lavorando alacremente. Dell’opec, peraltro, fa parte anche l’iran, che produce 3,25 milioni di barili al giorno ma non è soggetto a quote limitanti. Inoltre, un prezzo sopra i 100 dollari al barile per troppo tempo colpirebbe l’economia e farebbe scendere la domanda, cosa che l’opec non vuole.
Dall’altra parte dell’oceano, il presidente americano Joe Biden non ha certo desiderio di vedere un’altra impennata dei prezzi della benzina, che dal punto di vista elettorale sarebbe per i democratici un pessimo viatico in vista delle elezioni per la Casa Bianca di novembre.
D’altra parte però, vi sono due elementi da tenere presenti. Il primo è che Israele non ha risposto subito all’attacco iraniano, è vero, ma ha promesso che prima o poi lo farà, e questo può accadere in qualunque momento.
Il secondo è che resta aperta l’ipotesi di un blocco selettivo del traffico marittimo nello stretto di Hormuz. In quelle acque, venerdì scorso le Guardie della rivoluzione iraniane hanno assaltato e fermato una nave container riconducibile ad un armatore israeliano.
Il vascello partito da Abu Dhabi, la Msc Aries, che batte bandiera portoghese e ha un equipaggio indiano, era diretta in India. Sono in corso colloqui tra il governo indiano e quello iraniano per il rilascio di 17 membri dell’equipaggio.
Lo stretto di Hormuz è una vera e propria autostrada del mare, su cui viaggia gran parte dell’export di petrolio, gas e prodotti petroliferi da Arabia Saudita, Iraq, Emirati Arabi, Kuwait, Qatar e lo stesso Iran verso il resto del
mondo. Il passaggio è talmente profondo che vi può transitare qualunque nave, nel punto più stretto misura 30 miglia ma per la navigazione è ridotto a poche miglia di larghezza. Le quantità di greggio che passano per queste acque rappresentano circa il 21 % della produzione mondiale (quasi 22 milioni di barili al giorno), e sfila da qui tutto il gas liquido esportato dal Qatar, i cui maggiori clienti sono europei.
Un blocco selettivo del traffico marittimo a Hormuz avrebbe certamente impatto sui prezzi, anche se minore rispetto a quello che si avrebbe in caso di azioni di guerra. Si aggiungerebbe alle difficoltà sulle rotte all’ingresso sud del Mar Rosso, dove le azioni degli Houti contro il traffico marittimo proseguono. La missione navale occidentale Aspides la settimana scorsa ha infatti sventato altri undici attacchi, secondo fonti diplomatiche europee.
Con uno sbarramento sullo stretto di Hormuz, Israele si troverebbe con i corridoi marittimi a Sud chiusi o rallentati, e a quel punto per Israele l’unica via marittima percorribile resterebbe quella mediterranea.
Ne risulta che il Medio Oriente diventa un punto focale ancora più rilevante e l’area di tensione si allarga ancora di più. L’impatto sull’europa, in caso di restrizioni al traffico via mare nella zona, sarebbe molto forte, sia in termini di prezzo che di disponibilità della materia prima, gas compreso. Per i propri fabbisogni, l’europa dovrebbe contare ancora di più sugli Stati Uniti, che già è diventato il principale fornitore europeo di Lng. Anche l’export di prodotti petroliferi raffinati e distillati avrebbe delle conseguenze, considerato che Arabia Saudita ed Emirati arabi sono forti esportatori. Senza un cessate il fuoco a Gaza la fine delle tensioni nell’area si allontana sempre di più, portando con sé conseguenze pesanti.