Lo scudo israeliano di Fiumicino imbrigliato da burocrazia e Tar
Domani possibile sentenza per il ricorso di Elettronica. Ai giudici potere geopolitico
Mentre il mondo ha assistito alla capacità con cui lo Stato di Israele è riuscito a disinnescare l’attacco di centinaia di droni dell’iran, in Italia siamo ancora in attesa di far entrare in funzione un sistema di protezione simile a Iron Dome (ma concentrato sui droni) all’aeroporto di Fiumicino. In un momento così delicato dal punto di vista geopolitico internazionale una nostra infrastruttura strategica non è ancora in grado di difendersi adeguatamente. Eppure potrebbe, perché negli hangar di Fiumicino è ancora impacchettato e bloccato dalla burocrazia il Drone Dome, un sistema realizzato proprio dalla società elettronica di proprietà del governo israeliano
Rafael Advanced Defense Systems Ltd (la stessa di Iron Dome). Così la difesa civile italiana è costretta a restare in attesa che un giudice del Tar di Roma si esprima su un ricorso presentato negli scorsi mesi da Elettronica, storica azienda italiana che lavora nel settore difesa (controllata da Thales al 33, 33 %, al 31,33% da Leonardo e dalla famiglia Benigni con il 35,34%). La sentenza dovrebbe arrivare domani, ma chi segue il dossier teme che si possa andare ancora per le lunghe, perdendo altro tempo. Nell’ultima udienza del 24 gennaio i giudici si erano riservati di prendere una decisione e, a quanto risulta alla Verità, non era stata fatta alcuna richiesta di informazioni aggiuntive.
Del resto, questa storia è iniziata nel maggio del 2022, da quando cioè Adr (Aeroporti di Roma) decise di indire un bando di gara per affidare un contratto d’appalto per la progettazione, la fornitura e manutenzione di un sistema anti-droni appunto a Fiumicino. A vincere fu Rafael, con un sistema tecnologico all’avanguardia, capace di creare una cupola virtuale in grado di intercettare droni piccoli anche 15-20 centimetri a 3,5 chilometri di distanza dall’obiettivo. Va ricordato che l’italia è anche in ritardo rispetto ad altri Paesi. Da anni la questione dei droni interessa gli scali internazionali. A Londra Gatwick e Heathrow hanno effettuato questo tipo di investimenti già nel 2018, quando investirono più di 20 milioni di euro per l’acquisto di 6 sistemi
Drone Dome, capaci di bloccare soprattutto le comunicazioni tra il drone e il suo operatore. In casi come questo, infatti, il drone diventa inutile, anche se prosegue nel suo viaggio o se si disintegra al suolo. A partecipare a quella gara di Adr (amministratore delegato Marco Troncone) c’era anche (oltre a Rafael) Elettronica, che nel maggio dello scorso anno ha deciso di presentare ricorso per capire se il sistema antidroni sia a tutti gli effetti duale, militare e civile. Il tema non è di poco conto, anche perché nel caso di un aeroporto il compito di Adr sarebbe solo quello di mettere in sicurezza i passeggeri e avvisare l’autorità competente che poi sarebbe costretta a intervenire. E se partissero falsi allarmi sarebbe un problema perché le multe sono molto alte. Così la battaglia tra le due aziende va avanti da tempo, con l’italiana che, dopo la sconfitta, aveva chiesto all’ente aeroportuale di mostrare i documenti della società israeliana. Richiesta rimandata al mittente, perché, secondo Rafael, avrebbero potuto «consentire ad un concorrente di ricostruire e divulgare autonomamente sviluppi tecnologici ottenuti» e «quindi pregiudicare […] i diritti e gli interessi del ministero della Difesa israeliano». Ma oltre a questo ci sarebbe anche un tema di rispetto della direttiva Red (Radio Equipment directive) su cui proprio la controparte italiana avrebbe richiesto ulteriore documentazione a Rafael già prima dell’udienza di gennaio: i radar insistono infatti sulle frequenze radio. Il tema Red impatterà sulla sentenza? E in che direzione? Tante domande e una sola risposta: l’italia si conferma il Paese del Tar.