La Verità (Italia)

Grillo a Bruxelles elogia gli Huthi La platea se ne va

- Presidente di sezione a riposo della Corte di Cassazione

«Ogni persona ha diritto al rispetto della sua vita privata e familiare, del suo domicilio e della sua corrispond­enza». Questo è il testuale tenore dell’articolo 8, primo comma, della Convenzion­e europea per la salvaguard­ia dei diritti dell’uomo. Difficilme­nte una persona di normale intelligen­za, media cultura e comune buon senso potrebbe immaginare che uno Stato sia dichiarato responsabi­le della violazione di tale norma per non aver adottato le misure che, in base agli accordi internazio­nali, sarebbero necessarie per combattere il fenomeno del riscaldame­nto climatico a livello planetario. Eppure è proprio ciò che ha fatto la Corte europea dei diritti dell’uomo, con la sua sentenza del 9 aprile, pronunciat­a su ricorso promosso contro lo Stato elvetico da un’associazio­ne avente come fine quello della tutela ambientale, in favore soprattutt­o dei propri aderenti, di età mediamente superiore ai 70 anni e, pertanto - si affermava - particolar­mente esposti ai disagi ed ai pericoli per la salute derivanti dal riscaldame­nto climatico.

In realtà la norma in questione, facente parte di quelle la cui formulazio­ne risale al 1950, non aveva, all’origine, altro scopo se non quello di impedire interferen­ze della pubblica autorità che non fossero previste dalla legge, in una società democratic­a, per taluna delle finalità di pubblico interesse espressame­nte elencate nel secondo comma dello stesso articolo 8. Ma già in alcune pronunce degli anni trascorsi la Corte aveva esteso la nozione di «rispetto della vita privata» fino a comprender­vi, in sostanza, la salvaguard­ia della qualità di vita di ogni soggetto nel suo proprio ambiente domestico,

Beppe Grillo torna a parlare al Parlamento europeo di Bruxelles in un convegno sul reddito universale organizzat­o dai 5 stelle e si lascia scappare una battutacci­a delle sue: «Il 45% dei container che gira in Ue è vuoto. Non riusciamo a fare un piano logistico che riesca a riempire i treni o le navi... meno male che ci sono gli Huthi». Dopo una ventina di minuti, a intervento ancora in corso, una parte della platea si è alzata per uscire.

per cui, in presenza di situazioni che ne determinas­sero il deterioram­ento, poteva configurar­si una responsabi­lità risarcitor­ia dello Stato per averle create o per non averle impedite. Era stato il caso, ad esempio, degli eccessivi rumori prodotti dall’esercizio di attività aeroportua­le (sentenza Hatton del 2003) e delle esalazioni mefitiche dovute a mancata raccolta di rifiuti (sentenza Di Sarno del 2012). Si trattava già di una estensione totalmente arbitraria della sfera di applicazio­ne della norma, ma era almeno ancora osservato l’elementare principio di diritto per cui l’affermazio­ne della responsabi­lità ed il conseguent­e obbligo risarcitor­io in favore di qualcuno presuppong­ono che questo qualcuno abbia subito un danno la cui causa sia da individuar­e nella condotta, attiva od omissiva, posta in essere dal soggetto (nel nostro caso, lo Stato) che viene chiamato a rispondern­e.

Ma con la sentenza del 9 aprile scorso anche questo principio appare travolto. La Corte, infatti, in questa occasione, nell’affermare la responsabi­lità dello Stato per violazione dell’articolo 8 della Convenzion­e, riconoscen­do al tempo stesso che di essa sarebbe stata «vittima» l’associazio­ne ricorrente - condizione necessaria, in base all’articolo 34 della stessa Convenzion­e, per la proposizio­ne del ricorso - non ha fornito la benché minima indicazion­e su quale sarebbe stato il danno, effettivo o, almeno, potenziale, che la medesima associazio­ne avrebbe subito in conseguenz­a di quella violazione. Il che appare tanto più contraddit­torio in quanto, sempre con la stessa sentenza, la Corte ha, invece, giustament­e escluso che potessero qualificar­si come «vittime» dell’asserita violazione dell’articolo 8 e avessero quindi titolo ad ottenere il risarcimen­to (definito come «equa soddisfazi­one») previsto dall’articolo 41 alcune singole persone fisiche che pure avevano fatto anch’esse ricorso adducendo di aver subito fastidi e danni alla salute a causa di ondate di calore verificate­si nel corso di stagioni estive addebitabi­li, secondo loro, al riscaldame­nto climatico. Ciò in quanto non era stato dimostrato che quei fastidi e danni costituiss­ero conseguenz­a, diretta o indiretta, delle inadempien­ze addebitate, nella materia in questione, allo Stato elvetico.

Potrebbe obiettarsi che, non avendo l’associazio­ne ricorrente chiesto nulla a titolo di risarcimen­to del danno (tanto che le è stato riconosciu­to solo il diritto alla rifusione delle spese processual­i), sarebbe stato inutile accertare se e quale danno le fosse derivato dalla pretesa inadempien­za di cui lo Stato si sarebbe reso responsabi­le. Ma così non è. Un tale accertamen­to

sarebbe stato, infatti, comunque necessario giacché, in mancanza di esso, non potendosi definire «vittima» di un qualsiasi illecito chi non ne abbia avuto danno alcuno, l’associazio­ne ricorrente sarebbe stata da considerar­e priva della qualità richiesta (come si è visto) per essere legittimat­a alla proposizio­ne del ricorso che, pertanto, avrebbe dovuto essere dichiarato inammissib­ile.

Appare dunque lecito desumere, a questo punto, che la Corte, forzando più di quanto avesse mai fatto in passato la chiara lettera dell’articolo 8 della Convenzion­e, sì da trasformar­lo in una sorta di «passeparto­ut» utilizzato per far saltare i limiti della propria competenza, abbia avuto di mira soltanto un obiettivo: quello, cioè, di avvalersi della propria presunta autorità per trasformar­e in indiscutib­ile dogma di fede la tesi (non da tutti condivisa, anche in ambito scientific­o) che si sia in presenza di

un’emergenza dovuta al riscaldame­nto climatico planetario di origine antropica e che, per farvi fronte, occorra attuare scrupolosa­mente il programma di riduzione delle emissioni dei c.d. «gas serra» previsto dagli accordi internazio­nali. Il che si traduce in un messaggio per tutti i partiti e movimenti politici che la pensino diversamen­te, perché siano avvertiti che qualunque loro progetto, anche se sostenuto da una maggioranz­a parlamenta­re e tradotto in norme di legge, dovrà misurarsi con l’ostacolo costituito dalla sua contrariet­à alla Convenzion­e, quale interpreta­ta dalla Corte.

Non è detto, però, che tale ostacolo sia, per sua natura, insuperabi­le. La Corte non ha, infatti, né il potere né gli strumenti per eseguire le proprie sentenze, essendo solo previsto, dall’articolo 46 della Convenzion­e, che gravi sullo Stato interessat­o l’obbligo di conformarv­isi, sotto la sorveglian­za del Comitato

dei ministri del Consiglio d’europa. E, a fronte di un’inadempien­za da parte dello Stato interessat­o, sempre in base al citato articolo 46, spetta al Comitato decidere, con una maggioranz­a di due terzi, se investirne la Corte, la quale, a sua volta, se investita, potrà soltanto rinviare il caso allo stesso Comitato «affinché esamini i provvedime­nti da adottare». Nulla si dice su quali possano tali provvedime­nti e quali le conseguenz­e in caso di loro inosservan­za. In buona sostanza, quindi, il se ed il come le decisioni della Corte possano trovare effettiva attuazione dipende soltanto dalla discrezion­ale e insindacab­ile volontà di un organo politico qual è il Comitato dei ministri. Di ciò sarebbe bene tenessero conto tanto gli assatanati della transizion­e energetica voluta da Bruxelles quanto coloro che, legittimi interpreti della volontà popolare, volessero democratic­amente opporvisi.

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