Smontate le balle su baby trans e surrogata
Per Jennifer Lahl, attivista Usa in Italia per una conferenza, l’utero in affitto «altruistico» è una frottola: «Le donne che si offrono non sono ricche e quasi sempre vogliono soldi». E sui bimbi che chiedono il cambio di sesso avvisa: «Semmai date loro
Jennifer Lahl, ex infermiera americana, è una delle più note attiviste al mondo contro la maternità surrogata. Fondatrice del Center for bioethics and culture network, ha iniziato a produrre documentari nel 2011, anno in cui ha presentato Eggsploitation, dedicato allora sfruttamento delle donatrici di ovuli per la fecondazione eterologa. Da allora ha continuato a realizzare film di lotta, tenendo sempre al centro la preoccupazione per il corpo e la salute delle donne. I suoi ultimi tre lavori sono forse i più efficaci e sconvolgenti. Trans mission: what’s the rush to reassign gender?, The detransition diaries: saving our sisters e il più recente The lost boys: searching for manhood si dedicano a esplorare la transizione di genere e l’impatto che sta avendo sulle nuove generazioni. Di questo tema Lahl si è occupata mercoledì scorso, partecipando a «Salviamo le nostre ragazze (e ragazzi)», un incontro organizzato da Radfem Italia assieme a Marina Terragni, Monica Ricci Sargentini Mara Accettura.
Con lei c’è stata però pure la possibilità di parlare di utero in affitto e di smontare un po’ di luoghi comuni a riguardo.
eAd esempio l’insistenza progressista sulla cosiddetta surrogata solidale.
«Negli Stati Uniti la chiamiamo surrogazione altruistica, quella in cui la donna non viene pagata», dice l’attivista. «È un mito. Ci sono pochissime persone che si prestano a fare da madri surrogate senza alcun pagamento. Se le donne non vengono pagate, non vogliono sostenere una gravidanza surrogata per nove mesi. Ora, si potrebbero trovare pochissimi casi in cui una donna è disposta ad aiutare sua sorella o un’amica molto stretta, ma in larga misura le donne vengono pagate e vogliono essere pagate, e non faranno da surrogate a meno che non ricevano un compenso economico».
Eppure anche di recente, dopo la condanna della Gpa da parte della Santa Sede, qui da noi è ripartita la polemica. E c’è chi ha tentato di riproporre la solita distinzione: no alle costrizioni, ma sì alla surrogata fatta con convinzione e altruismo. Un racconto che Lahl demolisce senza pensarci due volte. Quelle che si prestano a fare da surrogate, dice, «non soni mai di donne ricche. Sono donne ricche quelle che assumono le madri
surrogate. Donne ricche, coppie ricche o uomini ricchi. Negli Stati Uniti non abbiamo povertà come in India o in Thailandia, ma sono le donne a basso reddito che fanno la surrogazione, perché hanno bisogno del denaro e pensano che sia una cosa buona aiutare qualcuno a formare una famiglia. Il mio background è nell’infermieristica», prosegue l’attivista, «e noi sappiamo che le gravidanze surrogate sono molto più rischiose di una gravidanza naturale di una donna. Questo è provato dalla letteratura medica, ma è anche provato dalla mia stessa ricerca pubblicata. Quindi direi ai medici: perché chiedete a donne sane, che non hanno motivo di prendere farmaci per la fertilità, di sottoporsi a una gravidanza che sappiamo essere ad alto rischio? Abbiamo avuto madri surrogate negli Stati Uniti e in California, il mio Stato, che sono morte. Quindi perché i medici chiedono a giovani donne sane, che spesso sono già madri, di fare cose rischiose? Questo non è quello che in genere i medici fanno alle donne. Quando mai vai dal dottore e lui dice: non hai bisogno di questo farmaco, non hai bisogno di questa procedura, ma abbiamo bisogno di te quindi ti pagheremo e prenderai questi farmaci?».
Difficile contestare ciò che sostiene la film maker americana. Nei suoi documentari e nelle sue conferenze ha illustrato perfettamente il business della surrogazione. «Io lo chiamo big fertility», dice. «È un’industria globale che frutta molti miliardi all’anno. A trarne profitto sono medici, avvocati, broker, agenzie. È una enorme industria multimiliardaria, che si fonda sostanzialmente
sul commercio, l’acquisto e la vendita di bambini».
Una industria che andrebbe fermata. «Mi piacerebbe vedere la surrogazione limitata», sospira Lahl. «Per esempio, mi piacerebbe vedere gli Stati Uniti fare quello che ha fatto l’india e chiudere i confini. Non mi piace che gli italiani vengano nel mio Paese o nel mio Stato per assumere donne affinché abbiano bambini per loro. Mi piacerebbe vedere cambiare le nostre leggi sull’immigrazione. Molte persone dalla Cina vengono in California perché una volta che un bambino nasce negli Stati Uniti, quel bambino è un cittadino statunitense. E vorrei che il nostro Dipartimento di Stato, a livello di governo federale, cambiasse queste leggi in modo che le
persone non possano viaggiare, le persone non possano comprare bambini, affittare uteri e andarsene con un bambino cittadino statunitense».
Se la questione della surrogata suscita, almeno dalle nostre parti, parecchia contrarietà, un po’ diversa è la situazione riguardo alla cosiddetta transizione di genere. Mentre il Regno Unito tira il freno a mano e blocca la somministrazione di bloccanti della pubertà ai minori, qui da noi sembra non esserci ancora sufficiente consapevolezza. «In questo momento siamo a un bivio, cercando di comprendere e aiutare i bambini che potrebbero essere confusi riguardo ai loro corpi. Io vorrei alimentare il dibattito sul fatto che tutto questo è dannoso e pericoloso per i
bambini. Tutto ciò non è reversibile, avrà conseguenze a lungo termine. Danneggerà la loro fertilità. Danneggerà la loro crescita fisica e il loro benessere mentale. E quello di cui questi bambini hanno realmente bisogno è un’alternativa».
Jennifer Lahl cita la britannica Cass review, il report indipendente commissionato dal governo sulla transizione che ha portato alla chiusura delle cliniche gender. «In larga misura questi bambini hanno bisogno di una buona salute mentale. Quindi hanno bisogno di psichiatria. Hanno bisogno di consulenza che li aiuti a capire meglio i loro sentimenti e a sentirsi a proprio agio con il modo in cui sono stati fatti», dice. «Nel mio film Trans mission sono stata molto solidale con i genitori, perché quello che vedo nel mio Paese - e in particolare nello Stato della California che sta davvero spingendo questi bambini alla transizione - è che vogliono prendere le cose con calma. Vogliono ottenere cure e interventi adeguati per i loro figli. E quello che ho scoperto è che molte volte le scuole sono contro di loro, gli insegnanti sono contro di loro. Gli viene detto che devono lasciare che il loro bambino faccia la transizione. A volte il medico, il terapista o quello che chiamiamo gender affirming non offrono alcuna alternativa oltre a bloccare la pubertà o mettere il bambino sotto ormoni del sesso opposto. A volte i genitori hanno anche contro la loro stessa famiglia, che gli dice che se non lasciano effettuare la transizione al bambino significa che sono transfobici. E ho pensato che ciò fosse davvero triste perché come genitori conosciamo meglio i nostri figli e vogliamo il meglio per loro. E tutti i professionisti, dagli insegnanti ai medici ai terapisti, stanno spingendo questi bambini su un percorso che non è senza conseguenze, non è senza danni, non è senza danni permanenti».
Lahl, sul punto, è durissima: «La transizione è impossibile», sostiene. «È un mito
L’ex infermiera ha girato diversi film per difendere la dignità femminile «Gli Stati Uniti vietino agli stranieri di venire da noi a comprare bambini»
«Scuole e medici attaccano i genitori se chiedono cure per i figli a disagio nei loro corpi Giusto fermare l’uso dei bloccanti della pubertà»
che tu possa essere una femmina, prendere farmaci e fare un intervento chirurgico e diventare un uomo. Non puoi farlo. Potresti cambiare un po’ il tuo aspetto, ma il tuo Dna, la tua genetica sono ancora del sesso con cui sei nato. Applaudo il Regno Unito per aver fermato i bloccanti della pubertà e aver riconosciuto che ci sono pochissimi dati seri a riguardo. E che, se questi farmaci sono qualcosa, sono dannosi».
Nel Regno Unito, si diceva, la tendenza si è invertita. In Italia, tuttavia, sembra che un confronto serio sia ancora difficile da affrontare. «Sono felice di essere venuta qui in Italia, dove la discussione sull’interruzione della pubertà sta avvenendo proprio ora», dice Lahl. «Spero che gli italiani guarderanno e prenderanno esempio da quello che è successo nel Regno Unito. Ero molto felice quando la clinica Tavistock ha chiuso, alcuni anni fa. E penso che il resto del mondo debba adottare questo approccio più misurato, e guardare a quello di cui questi bambini hanno realmente bisogno, a ciò che li aiuterà a sentirsi a proprio agio nei loro corpi».