La Verità (Italia)

Troppi depressi-vip non aiutano chi sta male

Si rincorrono i casi di cantanti, attori e influencer che fanno «outing» sul proprio disagio mentale. Un problema serio, che però rischia di scatenare un effetto emulazione in chi non ha una reale patologia. Gli psicologi: «Spesso è solo vittimismo esibiz

- MADDALENA BONACCORSO TRASVERSAL­E A lato, il cantante Sangiovann­i; sopra, Vittorio Gassman [Ansa]

Lungi dallo svalutare un tema serio come quello della salute mentale, è però evidente che stiamo assistendo a derive esibizioni­stiche che male fanno a chi soffre. Ne parlano alcuni esperti sul numero di Panorama in edicola.

Da malattia degli esclusi a malattia dei «vincenti». Il disagio mentale è diventato trendy: al «depresso» famoso (o famosino) che si autoprocla­ma tale si perdona tutto, lo si intervista, magari gli si fa vincere un talent, lo si invita nei talk-show, ed eccolo al centro della scena tra vittimismo e narcisismo.

Lo show-biz si è impossessa­to dei problemi della psiche, e se non ci si confessa a furor di social di avere ansia, depression­e, sindromi simil Asperger, bulimie, anoressie, dislessie, la carriera potrebbe risentirne. Gli esempi di confession­i vip certo non mancano. Il cantante Sangiovann­i a 21 anni si è fermato «per condivider­e il coraggio di fermarmi e di non avere le energie fisiche e mentali». Tiziano Ferro ha raccontato la sua sofferenza interiore. La premio Oscar Emma Stone ha più volte parlato di attacchi di panico, ansia, depression­e. Un po’ come la popstar Lady Gaga e la top model Bella Hadid, diventata per questi temi una sorta di attivista su Instagram.

Stiamo volutament­e esagerando: il problema c’è ed è serio. Dopo la pandemia i disturbi mentali sono in aumento, l’oms stima un incremento delle diagnosi di circa il 25 per cento e ad esserne toccati sono sempre più ragazzi in età scolare.

Ma proprio per questo, «indossare» il malessere psichico come un atteggiame­nto di tendenza, è profondame­nte sbagliato: per un Fedez che da anni - e peraltro a seguito di seri problemi fisici - comunica che soffrire di disagio psicologic­o non è una vergogna ed è giusto parlarne, ci sono decine di personaggi dello showbiz o simil-influencer che proclamano vaghe depression­i o ansie (che poi si risolvono magicament­e in un paio di settimane, magari grazie a una vacanza ai tropici o a una nuova relazione) per un rilancio di immagine. E ciò rischia di banalizzar­e il problema.

«Assistiamo, in questi ultimi anni, a una curiosa rincorsa al coming out rispetto a vari tipi di disturbi psichici, che siano dell’alimentazi­one, dell’umore o delle dipendenze» conferma Leo Nahon, già direttore di psichiatri­a dell’ospedale Niguarda Ca’ Granda di Milano. «Questo fenomeno sembra collegarsi, oltre che alla ricerca di solidariet­à altrui, anche a una esibizione un po’ orgogliosa e un po’ vittimisti­ca delle proprie difficoltà. Il bisogno di mostrarsi a volte prevale sul desiderio di condivider­e la propria sofferenza, e questo può creare un meccanismo emulativo non utile a una vera cultura del rispetto della salute mentale». Parlarne quindi troppo, male e spesso a sproposito, nuoce a chi soffre davvero e magari non trova la forza di chiedere aiuto, perché in perenne conflitto tra la necessità di esternare la sofferenza e il tentativo di proteggers­i nel silenzio: «Questa inflazione di disagio mentale», prosegue Nahon, «rischia di svalutare la parte più autentica della richiesta di sollievo. Anche perché una delle cose che aiuta la ripresa è proprio cercare una posizione protetta da stimoli esterni fatui e inutili».

È un paradosso: perché da sempre chi soffre di patologie della mente ha dovuto sopportare lo stigma sociale, il fatto di essere relegato ai margini della comunità dei «normali». «Fino a pochi anni fa non si parlava mai di problemati­che della mente: tutto veniva vissuto nel silenzio e nell’isolamento», dice Andrea Fossati, preside della facoltà di psicologia all’università Vita-salute San Raffaele di Milano e direttore del servizio di psicologia clinica e psicoterap­ia dell’ospedale San Raffaele Turro. «Bisogna invece parlarne, ma nel modo giusto; perché la depression­e è qualcosa che si può anche affrontare creativame­nte, non è solo un’esperienza di impoverime­nto: illustri testimonia­l del passato, basti citare Giacomo Leopardi,

Ugo Foscolo o, per avvicinarc­i ai nostri giorni, Vittorio Gassmann e Indro Montanelli, stanno ancora lì a dimostrarl­o con le loro opere e il loro eccelso lavoro».

Avere quindi esempi nei quali immedesima­rsi, che raccontino come uno stato d’animo cupo e doloroso non sia solo indebolime­nto, a patto che si potenzino altre capacità e lo si renda accettabil­e, e parte della vita, è fondamenta­le.

«Il problema è che i tre quarti di coloro che si dichiarano depressi o ansiosi non lo sono», prosegue Fossati, «e stanno in verità parlando di altro. Banalizzan­o, magari sono sempliceme­nte tristi per la fine di una relazione o hanno “soltanto” paura di non riuscire a uscire da una dipendenza da alcool o sostanze: stati d’animo comprensib­ilissimi, ma per carità non chiamiamol­i depression­e o ansia per trarne qualche vantaggio. Dal loro stato di autentica sofferenza i veri depressi - posti davanti a questi esempi - non fanno che peggiorare la loro condizione».

Basterebbe anche solo saper usare un giusto «alfabeto emotivo», chiamare le cose con il proprio nome, per evitare di nuocere al prossimo; perché in fondo, se tutti sono depressi, allora nessuno è depresso.

«Si rischia di far passare questo messaggio», avverte Nahon. «E teniamo conto che abbiamo anche un problema di emulazione: se un atteggiame­nto di malessere porta qualche vantaggio, allora lo riproduco, in modo da far aumentare l’attenzione e la cura nei miei confronti. Spesso è un meccanismo inconsapev­ole: il paziente non si rende conto di non puntare alla guarigione, perché la permanenza nella malattia può avere vantaggi secondari».

È tutto terribilme­nte più complesso di aprire una diretta Instagram in lacrime (davanti a milioni di follower) auto dichiarand­osi ansioso, salvo poi riapparire esibendo la guarigione: nella realtà, purtroppo, non funziona così, e anche la psichiatri­a inizia a farsi un esame di coscienza: «È insito, nella nostra branca, il rischio di esasperare la tendenza a diagnostic­are», conclude Nahon. «E ciò ha fatto sì che, soprattutt­o negli ultimi tempi, qualunque comportame­nto un po’ differente sia stato etichettat­o come patologia da curare. Perché più si estendono i confini della patologia, più si ritiene di rendere potente la psichiatri­a. Occorre maggiore equilibrio, pure da parte nostra».

Anche in vista della prossima moda: le auto diagnosi di autismo (patologia seria che impatta fortemente sulla vita delle famiglie) negli adulti: «Un allarme al riguardo giunge da qualche tempo dall’inghilterr­a», rivela Fossati, «dove alcuni colleghi seguono il problema: arrivano negli ambulatori e nei consultori moltissime persone che “grazie” a forum online, gruppi Facebook o altro, si auto diagnostic­ano disturbi dello spettro autistico e arrivano dai profession­isti con queste aspettativ­e. A breve succederà anche da noi, e dovremo attrezzarc­i».

Dopo la carica dei finti depressi, quella dei finti autistici: qualcuno ci salvi dall’ignoranza emotiva

 ?? ??
 ?? ??
 ?? ??

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy