Troppi depressi-vip non aiutano chi sta male
Si rincorrono i casi di cantanti, attori e influencer che fanno «outing» sul proprio disagio mentale. Un problema serio, che però rischia di scatenare un effetto emulazione in chi non ha una reale patologia. Gli psicologi: «Spesso è solo vittimismo esibiz
Lungi dallo svalutare un tema serio come quello della salute mentale, è però evidente che stiamo assistendo a derive esibizionistiche che male fanno a chi soffre. Ne parlano alcuni esperti sul numero di Panorama in edicola.
Da malattia degli esclusi a malattia dei «vincenti». Il disagio mentale è diventato trendy: al «depresso» famoso (o famosino) che si autoproclama tale si perdona tutto, lo si intervista, magari gli si fa vincere un talent, lo si invita nei talk-show, ed eccolo al centro della scena tra vittimismo e narcisismo.
Lo show-biz si è impossessato dei problemi della psiche, e se non ci si confessa a furor di social di avere ansia, depressione, sindromi simil Asperger, bulimie, anoressie, dislessie, la carriera potrebbe risentirne. Gli esempi di confessioni vip certo non mancano. Il cantante Sangiovanni a 21 anni si è fermato «per condividere il coraggio di fermarmi e di non avere le energie fisiche e mentali». Tiziano Ferro ha raccontato la sua sofferenza interiore. La premio Oscar Emma Stone ha più volte parlato di attacchi di panico, ansia, depressione. Un po’ come la popstar Lady Gaga e la top model Bella Hadid, diventata per questi temi una sorta di attivista su Instagram.
Stiamo volutamente esagerando: il problema c’è ed è serio. Dopo la pandemia i disturbi mentali sono in aumento, l’oms stima un incremento delle diagnosi di circa il 25 per cento e ad esserne toccati sono sempre più ragazzi in età scolare.
Ma proprio per questo, «indossare» il malessere psichico come un atteggiamento di tendenza, è profondamente sbagliato: per un Fedez che da anni - e peraltro a seguito di seri problemi fisici - comunica che soffrire di disagio psicologico non è una vergogna ed è giusto parlarne, ci sono decine di personaggi dello showbiz o simil-influencer che proclamano vaghe depressioni o ansie (che poi si risolvono magicamente in un paio di settimane, magari grazie a una vacanza ai tropici o a una nuova relazione) per un rilancio di immagine. E ciò rischia di banalizzare il problema.
«Assistiamo, in questi ultimi anni, a una curiosa rincorsa al coming out rispetto a vari tipi di disturbi psichici, che siano dell’alimentazione, dell’umore o delle dipendenze» conferma Leo Nahon, già direttore di psichiatria dell’ospedale Niguarda Ca’ Granda di Milano. «Questo fenomeno sembra collegarsi, oltre che alla ricerca di solidarietà altrui, anche a una esibizione un po’ orgogliosa e un po’ vittimistica delle proprie difficoltà. Il bisogno di mostrarsi a volte prevale sul desiderio di condividere la propria sofferenza, e questo può creare un meccanismo emulativo non utile a una vera cultura del rispetto della salute mentale». Parlarne quindi troppo, male e spesso a sproposito, nuoce a chi soffre davvero e magari non trova la forza di chiedere aiuto, perché in perenne conflitto tra la necessità di esternare la sofferenza e il tentativo di proteggersi nel silenzio: «Questa inflazione di disagio mentale», prosegue Nahon, «rischia di svalutare la parte più autentica della richiesta di sollievo. Anche perché una delle cose che aiuta la ripresa è proprio cercare una posizione protetta da stimoli esterni fatui e inutili».
È un paradosso: perché da sempre chi soffre di patologie della mente ha dovuto sopportare lo stigma sociale, il fatto di essere relegato ai margini della comunità dei «normali». «Fino a pochi anni fa non si parlava mai di problematiche della mente: tutto veniva vissuto nel silenzio e nell’isolamento», dice Andrea Fossati, preside della facoltà di psicologia all’università Vita-salute San Raffaele di Milano e direttore del servizio di psicologia clinica e psicoterapia dell’ospedale San Raffaele Turro. «Bisogna invece parlarne, ma nel modo giusto; perché la depressione è qualcosa che si può anche affrontare creativamente, non è solo un’esperienza di impoverimento: illustri testimonial del passato, basti citare Giacomo Leopardi,
Ugo Foscolo o, per avvicinarci ai nostri giorni, Vittorio Gassmann e Indro Montanelli, stanno ancora lì a dimostrarlo con le loro opere e il loro eccelso lavoro».
Avere quindi esempi nei quali immedesimarsi, che raccontino come uno stato d’animo cupo e doloroso non sia solo indebolimento, a patto che si potenzino altre capacità e lo si renda accettabile, e parte della vita, è fondamentale.
«Il problema è che i tre quarti di coloro che si dichiarano depressi o ansiosi non lo sono», prosegue Fossati, «e stanno in verità parlando di altro. Banalizzano, magari sono semplicemente tristi per la fine di una relazione o hanno “soltanto” paura di non riuscire a uscire da una dipendenza da alcool o sostanze: stati d’animo comprensibilissimi, ma per carità non chiamiamoli depressione o ansia per trarne qualche vantaggio. Dal loro stato di autentica sofferenza i veri depressi - posti davanti a questi esempi - non fanno che peggiorare la loro condizione».
Basterebbe anche solo saper usare un giusto «alfabeto emotivo», chiamare le cose con il proprio nome, per evitare di nuocere al prossimo; perché in fondo, se tutti sono depressi, allora nessuno è depresso.
«Si rischia di far passare questo messaggio», avverte Nahon. «E teniamo conto che abbiamo anche un problema di emulazione: se un atteggiamento di malessere porta qualche vantaggio, allora lo riproduco, in modo da far aumentare l’attenzione e la cura nei miei confronti. Spesso è un meccanismo inconsapevole: il paziente non si rende conto di non puntare alla guarigione, perché la permanenza nella malattia può avere vantaggi secondari».
È tutto terribilmente più complesso di aprire una diretta Instagram in lacrime (davanti a milioni di follower) auto dichiarandosi ansioso, salvo poi riapparire esibendo la guarigione: nella realtà, purtroppo, non funziona così, e anche la psichiatria inizia a farsi un esame di coscienza: «È insito, nella nostra branca, il rischio di esasperare la tendenza a diagnosticare», conclude Nahon. «E ciò ha fatto sì che, soprattutto negli ultimi tempi, qualunque comportamento un po’ differente sia stato etichettato come patologia da curare. Perché più si estendono i confini della patologia, più si ritiene di rendere potente la psichiatria. Occorre maggiore equilibrio, pure da parte nostra».
Anche in vista della prossima moda: le auto diagnosi di autismo (patologia seria che impatta fortemente sulla vita delle famiglie) negli adulti: «Un allarme al riguardo giunge da qualche tempo dall’inghilterra», rivela Fossati, «dove alcuni colleghi seguono il problema: arrivano negli ambulatori e nei consultori moltissime persone che “grazie” a forum online, gruppi Facebook o altro, si auto diagnosticano disturbi dello spettro autistico e arrivano dai professionisti con queste aspettative. A breve succederà anche da noi, e dovremo attrezzarci».
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