Una serie tv racconta il sedicenne che partecipò all’attacco di Atocha
Su Disney+ la storia di Gabriel Montoya Vidal, che trasportò l’esplosivo dei jihadisti
Era giovedì 11 marzo 2004. Il sole, ancora, non era alto nel cielo, ma un altro bagliore rischiarava Madrid. Era la luce delle sirene, i fari dei primi soccorsi. Intorno, caos: i residui di un’esplosione che sarebbe passata alla storia. Giovedì 11 marzo 2004, a Madrid, quattro treni furono fatti esplodere. Il più grande attentato jihadista mai commesso su suolo europeo: le vittime arrivarono quasi a due centinaia. Nel resoconto di quella giornata, nella caccia ai colpevoli, uno e più nomi si persero. Gabriel Montoya Vidal ebbe un certo spazio, sulle prime.
Poi, però, qualcosa nella narrazione dell’attentato mutò e «Baby», come lo chiamavano gli amici, smise di essere una figura chiave nella ricostruzione di quanto successo. Divenne un minuscolo ingranaggio di un sistema immenso, ordito dagli attentatori islamici. Gli stessi che, all’epoca, non aveva capito esistere. Gabriel Montoya Vidal, la cui storia è oggetto di una serie televisiva, Ci vediamo in un’altra vita, disponibile da oggi su Disney+, aveva 16 anni, nel 2004. La famiglia, come spesso accade con i ragazzi difficili, aveva contezza solo parziale delle sue inclinazioni. A sette anni si era ubriacato la prima volta, a 10 aveva infilato le mani nei salvadanai. A 11 si era reso protagonista del primo arresto, colpevole di aver cercato di rubare una macchina. A 15, insieme a Emilio Suárez Trashorras, un minatore ben più vecchio di lui, aveva scoperto la cocaina e gli affari illeciti che le sono sottesi.
Montoya Vidal fu il primo arrestato per gli attentati di Madrid. Era minorenne e la cosa bastò a risparmiargli il carcere. Ma la sua testimonianza, nel 2007, fu fondamentale nell’economia del processo. «Questa è una storia vera, la storia di un ragazzo che, prima di allora, non aveva mai sentito parlare di Islam. A malapena sapeva cosa fosse successo tre anni prima, con gli attentati alle Torri Gemelle», spiegò Manuel Jabois, giornalista cui Baby affidò la propria storia. L’idea, all’epoca, fu quella di ricostruire, riavvolgere il nastro per risalire all’origine del male, quanto meno spiegare il coinvolgimento di un ragazzo tanto giovane in un attentato islamista. Jabois non tentò di farne un’apologia. Al contrario, finì per rimanere interdetto davanti a quello che definì «il vero orrore, un nichilismo assurdo e irrazionale». Montoya Vidal non si pentì di aver trasportato l’esplosivo poi usato sui treni e neppure disse di aver commesso un peccato madornale a non informarsi sulla sua destinazione finale. Pensava sarebbe servito per rapinare alcune gioiellerie e, come invece venne utilizzato, lo scoprì solo a cose fatte, durante la mattinata in un bar di Avilés. Le autorità risalirono a lui e a Trashorras, ricostruirono come i due fecero da tramite per recapitare l’esplosivo alla cellula terroristica che avrebbe poi fabbricato le bombe. Trashorras fu condannato a 34.715 anni di carcere. Vidal fu spedito in riformatorio e lì fece i primi nomi. Senza pentimento, senza rimpianti. Con una freddezza e un distacco emotivo senza pari. Le stesse di cui Jabois cercò di mettere nella propria narrazione.