Quando gli inglesi erano convinti che Machiavelli fosse il diavolo
Nel Nord protestante il fiorentino fu visto come alfiere del potere demoniaco, alimentando una caricatura che sarà dura a morire
È appena uscito, per i tipi di Rubbettino, Machiavelliana. Immagini, percorsi, interpretazioni, del politologo Alessandro Campi. Ne pubblichiamo un estratto su un singolare aspetto della ricezione dell’opera del grande scrittore fiorentino.
Niccolò Machiavelli è stato il pensatore «diabolico» per eccellenza della tradizione politica europea, l’autore di un trattato, Il Principe, «scritto con la mano del diavolo» («Satanae digito scriptum»), come affermato nel 1539 da uno dei suoi primi e più implacabili detrattori, il cardinale Reginald Pole (Apologia ad Carolum V). E quando nel 1615 i gesuiti ne bruciarono l’immagine nella piazza di Ingolstadt, giustificarono il rogo - secondo quanto riportato da Kaspar Schoppe nel suo Machiavellicorum pars posterior (1619) - con l’accusa che si trattava di un «uomo astuto e falso, gran fabbro di cogitazioni diaboliche, ausiliario del demonio» (Homo vafer ac subdolus, diabolicarum cogitationum faber optimus, caecodaemonis auxiliator). Nulla di strano dunque se nel corso del tempo, ad esempio nell’inghilterra elisabettiana e antipapista, il suo nome - divenuto, agli occhi delle chiese riformate del Nord, l’emblema di una politica tutta giocata sull’inganno come quella abitualmente praticata nel mondo cattolico-latino: un divertente paradosso per un autore che in vita era stato un gran denunciatore delle malefatte clericali e che da morto ha dovuto scontare per quasi due secoli i rigori censori del Sant’uffizio - sia stato deformato in forme maliziosamente allusive al Principe delle Tenebre e con lo scopo di biasimare le malvagie pratiche politiche da lui teorizzate e giustificate alla stregua di un’insopprimibile necessità della lotta per il potere: Much Evil, Macht a Villain, Hatch Evil, Mitchell Wylie, Matchewell sono alcune delle storpiature che nella letteratura del periodo, a partire dalla scrittura teatrale, sono state inflitte al suo nome per renderlo vagamente assonante col diavolo e col male (devil-evil). Nei drammi elisabettiani (da Marlowe a Shakespeare , da Webster a Jonson), è frequente il riferimento, anche solo vago e indiretto ma pur sempre polemico e riconoscibile, a Machiavelli per personaggi presentati sulla scena come malvagi, traditori, furfanti, intriganti e appunto demoniaci. Si pensi anche a quel che Thomas Middleton - nell’opera Game at Chess (1624) - fa dire al Cavaliere Nero, cioè all’ambasciatore di Spagna, il celebre (e all’epoca famigerato) Don Diego Sarmiento Conte di Gondomar: «Largo al più possente politico machiavellico (Machiavel-politician) che il diavolo mai fece nascere da un uovo di monaca!». Manca la prova filologica, ma persino uno dei nomignoli con i quali in lingua inglese si indica il diavolo, old Nick, leggenda vuole che si riferisca proprio al «vecchio Niccolò». Con questi precedenti, nemmeno sorprende il tratto sinistro e appunto diabolico con cui il Segretario fiorentino è stato raffigurato nei secoli. Del suo ritratto più celebre e per certi versi canonico, quello attribuito a Santi di Tito e oggi visibile al Palazzo Vecchio di Firenze, lo scrittore Guido Ceronetti ha scritto che per via delle sue fattezze inquietanti esso non rappresenta il modello originale (che l’artista, nato dopo la morte del Segretario, non avrebbe potuto conoscere), bensì esprime «una idea esattissima della demonicità machiavellica», l’idea perfetta di quello che può considerarsi «un vero demonio del tempo futuro». Il sorriso sardonico e attraversato da una leggera smorfia, la calvizie accentuata da un’ampia fronte, gli occhi indagatori e puntuti, la bocca piccola, l’espressione volpina. Non si tratta di Machiavelli, dell’uomo in carne e ossa, ma di una stilizzazione iconografica del machiavellismo politico inteso nel suo significato deteriore ma anche più convenzionale: violenza, brama di potere, doppiezza, amoralità, cinismo.
Uno dei nomignoli con cui i britannici tradizionalmente indicano Satana, «old Nick», sembra riferirsi proprio al «vecchio Niccolò»
Ribaldo, licenzioso, irriverente, ateo e a tratti blasfemo il Segretario lo fu davvero, ma con spirito goliardico e provocatorio
[...]
Il problema è che ribaldo, licenzioso, irriverente, ateo e a tratti blasfemo, dunque in senso lato diabolico e malefico, Machiavelli lo è stato davvero mentre era in vita, anche se spesso con uno spirito tra il goliardico e il provocatorio. E con l’ombra di Lucifero e le evocazioni demoniache nei suoi pensieri e scritti ha in effetti giocato più volte, alimentando equivoci e incomprensioni che si sarebbero rivelati letali per la sua immagine pubblica a venire. Il filosofo politico Sebastian de Grazia, autore dell’eloquente (sin dal titolo) Machiavelli all’inferno, ha notato quanto spesso il Fiorentino - in linea peraltro con una tradizione letteraria rimontante all’antichità classica, ma da lui accentuata e in parte stravolta - abbia discusso e citato l’oltretomba «in lettere, discorsi, commedie, racconti, versi e canzoni», sino a proporre a beneficio dei suoi lettori (in realtà assai pochi, sebbene qualificati, mentre era in vita) «un’immagine nuova dei diavoli e dell’inferno nella letteratura d’intrattenimento»; un’immagine benevola, scanzonata e per certi versi persino rassicurante, lontana da quella drammatizzante - fatta di dolorose pene e di dannazione eterna - dei teologi e della Chiesa, e riassumibile per lui nella formula: «In cielo per il clima, all’inferno per la compagnia» (formula che rappresenta anche un detto popolare ancora oggi ripetuto). A conferma di ciò basta in effetti qualche citazione, come ad esempio l’epitaffio satirico, duro e persino ingeneroso, da lui vergato a commento - probabilmente non immediato - della scomparsa, avvenuta il 13 giugno 1522, di Piero Soderini, di cui era stato il collaboratore più stretto per oltre un decennio ai tempi della Firenze repubblicana: «La notte che morì Pier Soderini, / L’anima andò de l’inferno a la bocca; / Gridò Pluton: - Ch’inferno? anima sciocca, / Va su nel limbo fra gli altri bambini». L’esordio è una parodia petrarchesca. L’anima sciocca del terzo verso una suggestione dantesca (Inferno, XXXI, 70-71). Da questo breve motteggio emerge che la colpa eterna destinata a pesare sul Gonfaloniere è di essere stato politicamente troppo mite e prudente, un indeciso, un attendista, al punto che è Plutone in persona a impedirgli l’ingresso agli Inferi luogo evidentemente riservato agli uomini grandi, a coloro che si sono dimostrati all’altezza del potere di cui sono stati investiti, tutt’altro dunque che un luogo di dannazione - e a ricacciarlo laddove riposano le anime innocenti e coloro che non hanno commesso peccati (ma solo, sembra di capire, per non averne avuto il tempo o la forza). Tra i canti carnascialeschi machiavelliani uno dei più celebri è quello intitolato De’ diavoli iscacciati di cielo, del quale s’è a lungo discussa la possibile data di composizione: il periodo giovanile, quando era ancora fresca la memoria della tradizione festaiola della Firenze laurenziana (l’ipotesi oggi più accreditata dagli studiosi), o gli anni immediatamente seguenti la fine traumatica del regime repubblicano (l’ipotesi più accreditata in passato)? Questo l’esordio della canzone: «Già fummo, or non siam più, Spirti beati; / per la superbia nostra / siàno stati dal ciel tutti scacciati; / e in questa città vostra / abbiàn preso il governo, / perché qui si dimostra / confusion, dolor più che inferno». Arrivati sulla terra - cioè nella Firenze licenziosa sul piano dei costumi e preda di in terminabili lotte interne su quello politico - quel che i diavoli scoprono è che nell’oltremondo che hanno dovuto lasciare vi erano meno disordine e minori ingiustizie. Diversamente da quel che pensava Sant’agostino, la civitas terrena non coincide affatto con la civitas diaboli: l’una e l’altra dominate dalla corruzione e dal vizio. Semmai è la prima a fare da cattivo esempio a quest’ultima. L’inversione teologicopolitica che risalta da questi versi è chiara: il caos infernale è in realtà di questo mondo e gli uomini, che ne sono all’origine, possono solo sperare di governarlo. Che Machiavelli non avesse un così gran timore dell’inferno, anzi lo ritenesse la degna destinazione degli spiriti virtuosi, lo si evince anche da un celebre passo della Mandragola. Siamo nel quarto atto, prima scena. Callimaco, nell’attesa del suo complice Ligurio, riflette in solitudine e si fa prendere dallo sconforto, dai dubbi e dai cattivi pensieri: si chiede se riuscirà a soddisfare la sua passione per Lucrezia; se non debba alla fine pentirsi degli inganni e delle cattive azioni che sta perpetrando [...] La prospettiva fosca che Callimaco intravvede è di dover un giorno pagare per la sua ostinazione, per i suoi errori e per i suoi comportamenti. L’unica consolazione è che, se tutto dovesse andare male e se mai dovesse finire dannato, non sarebbe al dunque una così drammatica punizione: «El peggio che te ne va è morire e andarne in inferno; e’ son morti tanti degli altri! e’ sono in inferno tanti uomini da bene! Ha’ti tu a vergognare d’andarvi tu?».