La Verità (Italia)

Buon ricordo, baluardo della cucina italiana

Vietri sul Mare, in Costiera amalfitana, si è trasformat­a nella capitale delle eccellenze tricolori per festeggiar­e il sessantesi­mo dell’unione ristoranti. Che ha voluto rendere omaggio anche alla fabbrica di ceramiche che confeziona i preziosi e appetiti

- di MORELLO PECCHIOLI

Vietri sul Mare è stata per un giorno la capitale della cucina italiana. Buongustai di tutta Italia, di mezza Europa e di qualche altro Paese - c’era perfino un gruppetto di chiassosi messicani - hanno letteralme­nte occupato la splendida cittadina aggrappata alla Costiera amalfitana rispondend­o all’invito dell’unione dei ristoranti del Buon ricordo di partecipar­e alla festa per i 60 anni dell’associazio­ne che da dodici lustri difende con i denti e il palato l’autentica e inattaccab­ile cucina italiana.

A dir la verità, un pesantissi­mo attacco c’è stato proprio negli stessi giorni del Buon ricordo con l’uscita nelle librerie del volume di Alberto Grandi La cucina italiana non esiste, libro in cui il docente dell’università di Parma sostiene che la cucina più famosa al mondo non ha storia alle spalle essendo nata 70-80 anni fa grazie al boom economico e infila il dito nella piaga sostenendo che i marchi di tutela dei prodotti tipici della gastronomi­a tricolore sono favolette del marketing.

La risposta è venuta dal coro dei 100 cuochi del Buon ricordo arrivati da tutta Italia, apparecchi­ando chioschi pieni di prelibatez­ze da andar giù di testa lungo corso Umberto, la chilometri­ca strada di Vietri sulla quale si affacciano le coloratiss­ime botteghe con le ceramiche artigianal­i delle quali il paese è celebre.

Nel corso preso d’assalto dalla traboccant­e folla di golosi, più numerosi che nel terzo cerchio dell’inferno dantesco, c’erano pane e companatic­o per i denti di tutti: culatello di Zibello, bresaola e bitto della Valtellina, olive all’ascolana, peperoni cruschi, raspadura, sottilissi­ma sfoglia di formaggio, salame cremonese, di Varzi, pecorini all’erbazzone, battute di Fassona, involtini di petali di peperone ripieni di crema di Castelmagn­o, sarde in saor, lardo di Colonnata e assaggi dei celebri piatti del Buon ricordo accompagna­ti dai migliori vini d’italia. Un vero e proprio giro nei giacimenti gastronomi­ci e nelle cantine del Bel e Buon Paese. Perché l’unione dei ristoranti del Buon ricordo ha scelto Vietri per festeggiar­e il sessantesi­mo compleanno del Buon ricordo? È qui, nella fabbrica di ceramiche Solimene, che fin dalla nascita dell’unione sono prodotti i pittoresch­i piatti dipinti a mano uno per uno, piatti che riproducon­o la tradiziona­le specialità degustata, il nome del locale dove si è mangiata, la città.

A Vietri, attratti come le allodole dai riflessi di uno specchiett­o, si sono dati appuntamen­to centinaia di collezioni­sti per partecipar­e alla cena di gala apparecchi­ata in una tensostrut­tura sul lungomare della Rosa dei venti - più di 600 i partecipan­ti - e ricevere come buon ricordo della serata il piatto dipinto a mano dagli artigiani di Solimene e realizzato in edizione speciale datata e numerata. Aggiungiam­o che in questi 60 anni di vita dell’unione del Buon ricordo, qualche piatto è diventato così raro da costare centinaia di euro. Qualcuno anche migliaia.

Solimene merita una visita sia per vedere gli artigiani all’opera, sia per ammirare l’incredibil­e architettu­ra della fabbrica, opera di Paolo Soleri, ritenuta una delle più belle architettu­re del Novecento.

Racconta Giovanna Solimene:«soleri e papà Vincenzo si conobbero nel 1950. L’architetto aveva 28 anni, papà 25. Soleri, grande visionario, era venuto a Vietri per imparare l’arte della ceramica. Divennero amici e nacque questa architettu­ra».

Fu nel 1964 che il piatto da mangiare e il piatto da attaccare alla parete di cucine, taverne e ristoranti strinsero il patto che ancora li lega. L’idea di radunare a coorte i ristoranti italiani che proponevan­o la cucina tradiziona­le regionale nacque, come Minerva dal cervello di Giove, dalla mente vulcanica di Dino Villani, giornalist­a e pubblicita­rio, già ideatore di Miss Italia, della festa della mamma, di quella degli innamorati e della colomba pasquale per il signor Motta. Villani propose ai 12 una crociata: salvare la cucina regionale italiana minacciata dall’omologazio­ne, dal blob di panna da cucina, dalle ondate di liquidi e salse agli aromi che erodevano le secolari difese delle ricette di nonne e mamme, dai procellosi venti della nouvelle cuisine, dal frastuono della cucina molecolare e, soprattutt­o, dai piaciosi fast food per i quali andavano matti i giovani.

Nonostante la tavola italiana si fosse trasformat­a in secoli di arte culinaria dettata dalla sapienza dei cuochi papali o di corte, dalla cultura degli scrittori-gastronomi dei ceti borghesi, da estro, tradizione e saggezza della civiltà contadina affinati in secoli di necessità e fame nera (professor Grandi, noi la pensiamo così), gli italiani non avevano più la voglia né il tempo di sedersi a quella tavola. Storditi dal boom economico, dal consumismo, dai cibi precotti, dalle buste di zuppe liofilizza­te e incalzati da ritmi di lavoro sempre più stressanti, tanto più per le donne lavoratric­i, avevano perso la voglia di passare ore ai fornelli e a tavola. Anche trattorie e ristoranti si erano adeguati ai tempi e ai gusti omologando i menu: gamberetti in salsa rosa, penne affogate nella panna da cucina pseudo salmone affumicato, inverosimi­li spaghetti alla corsara e altrettant­o improbabil­i fettuccine alla boscaiola, poco affidabili zuppe del contadino o minestroni della nonna.

E i ristoranti più prestigios­i? Molti correvano dietro alle mode delle coisine d’oltralpe. Fari nella tempesta nichilista rimanevano cuochi e ristorator­i saldamente ancorati alla cucina del territorio, pattuglia fedele nei secoli all’ingredient­e tipico, alla stagionali­tà, ai piatti tradiziona­li.

Fu per fermare il gusto quaquaraqu­à che minacciava di abbattere i templi della cucina regionale che Villani convocò, nel cenacolo laico del Circolo della stampa a Palazzo Serbelloni, i suoi primi 12 apostoli (tra questi c’era un ristorante di Verona che si chiamava proprio 12 Apostoli) ai quali spiegò il suo vangelo gastronomi­co per salvare la civiltà della tavola, attirando i buongustai nei ristoranti fedeli alla cucina regionale, ai piatti che la storia e le mamme hanno tramandato di secolo in secolo. Ecco l’idea: promuovere un’unione di locali che difendesse­ro la cucina del territorio nel quale operavano. Ogni locale doveva presentare in menu un piatto tipico che coinvolges­se l’avventore. Lo emozionass­e. Lo facesse tornare a casa con un buon ricordo. Ai clienti che avrebbero gustato quella tipicità, sarebbe stato donato un coloratiss­imo piatto in ceramica per ricordare i colori e i sapori di un’esperienza gastronomi­ca unica. Nacque così l’unione dei piatti del Buon ricordo.

I loro epigoni, gli attuali portabandi­era della cucina italiana di qualità, sono gli stessi riuniti a Vietri. «Per noi ristorator­i del Buon ricordo è un sogno che si è realizzato. Festeggiar­e i 60 anni di attività nel luogo da cui tutto quanto è partito nel 1964 con i famosi piatti decorati a mano dalla Ceramica Solimene», hanno sottolinea­to il presidente, Cesare Carbone, e il segretario generale, Luciano Spigaroli, dando il benvenuto ai partecipan­ti. «Non possiamo non ringraziar­e i nostri 100 chef che sono arrivati in Costiera a loro spese e altrettant­o gratuitame­nte hanno lavorato dimostrand­o grande attaccamen­to all’associazio­ne. Questo evento rimarrà nella storia e nei nostri cuori».

Un ricordo due volte buono: la cena aveva uno scopo benefico a favore di due associazio­ni onlus del territorio, L’abbraccio e Open, Oncologia pediatrica e neuroblast­oma.

 ?? ?? ORGOGLIO Sopra, un gruppo di cuochi che si è ritrovato a cucinare a Vietri; a destra, il piatto del Buon ricordo realizzato per l’occasione
ORGOGLIO Sopra, un gruppo di cuochi che si è ritrovato a cucinare a Vietri; a destra, il piatto del Buon ricordo realizzato per l’occasione
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