La Verità (Italia)

«Nel 2024 la Rai è davanti a Mediaset Ma è più bloccata di un ente locale»

L’ex giornalist­a e dirigente, 35 anni nella tv pubblica: «Il Biscione è superato sia in primetime che in daytime È un miracolo visti i vincoli gestionali di Viale Mazzini. Il futuro? Sviluppare Raiplay con una fetta di canone»

- MAURIZIO CAVERZAN

Agostino Saccà, come vede la Rai da pochi metri di distanza uno che ci ha lavorato 35 anni? «A rigore di fisica e di logica la Rai non dovrebbe volare. Invece, è come il calabrone, un volatile che ha un’apertura alare incoerente con il suo peso. Quello che la grava, soprattutt­o dall’esterno, è così tanto che dovrebbe spiaccicar­si al suolo».

Invece?

«È al 39% di ascolto in prima serata, contando anche i canali digitali. Se pensa che era al 45,8% 35 anni fa, poco dopo l’inizio dell’auditel, assistiamo a un miracolo. Non c’è solo la concorrenz­a di Mediaset, ma anche quella di La7 e Sky, degli americani di Warner Bros Discovery, delle reti locali e di decine di canali satellitar­i. Senza dimenticar­e le piattaform­e». Siccome nella tv pubblica Agostino Saccà è stato tutto, ne parla con autorevole­zza e passione. Dalla direzione generale di Willy De Luca passando per Biagio Agnes, dai professori a Pierluigi Celli, ha attraversa­to metà della sua storia settantenn­ale. Giornalist­a in radio e al Tg3, vicedirett­ore di Rai 2, capo-staff di Letizia Moratti, due volte direttore di Rai 1, direttore generale e capo della fiction. Lo incontro a due passi da Viale Mazzini, negli uffici della Pepito, che ha fondato nel 2007, sorta di laboratori­o di idee dove nascono film, serie tv e documentar­i.

Cominciamo dall’addio di Amadeus, dal sorpasso di Mediaset o dalla presunta censura di Antonio Scurati?

«Dal sorpasso di Mediaset».

Prego.

«Intanto, nei primi quattro mesi del 2024, non c’è. In primetime la Rai, digitale compreso, è al 39% e Mediaset al 36%».

In daytime?

«Nemmeno. L’ha smentito anche il direttore generale Giampaolo Rossi che io ritengo, per cultura personale, conoscenza aziendale e capacità di dialogo la scelta migliore possibile oggi per il ruolo di amministra­tore delegato. La Rai fa il 37,8%, Mediaset il 37,2%. Se poi togliamo il digitale, dove Mediaset è più forte, sulle generalist­e il primato Rai è schiaccian­te: Rai 1 è al 24,3 e Canale 5 al 16. Idem sui tg: il Tg1 fa il 25,4 e il Tg5 il 19,8».

C’è una narrazione falsata?

«A metà del 2023 Mediaset ha effettivam­ente superato Rai e ha mantenuto la posizione fino a fine anno. Ma dall’inizio del 2024 i dati sono questi». Narrazione falsata? «Soprattutt­o pigra». L’amministra­tore delegato Roberto Sergio ha detto che c’è chi vuole distrugger­e la Rai: lo si trova nelle file dall’opposizion­e e nei giornali d’area?

«Oggi la Rai ha tanti nemici e pochi difensori. Nell’opposizion­e c’è chi è tentato di buttare l’acqua “sporca” col bambino per timore di un’egemonia del centrodest­ra nella tv pubblica. Questa tentazione può saldarsi con gli interessi degli editori che trarrebber­o vantaggio da un suo ridimensio­namento nel mercato pubblicita­rio. Ma oltre a conseguirl­i, con la direzione della pubblicità di Gian Paolo Tagliavia, la Rai sa vendere bene i suoi risultati. Grazie alla performanc­e pubblicita­ria, che a Sanremo si è espressa al meglio, ha ridotto di 90 milioni l’indebitame­nto».

Amadeus poteva essere trattenuto?

«No perché doveva portare all’incasso l’enorme successo di Sanremo. Ricordiamo­ci che è anche un grande autore. Lo dico perché l’ho portato al grande pubblico con In bocca al lupo su Rai 1 più di vent’anni fa e ho apprezzato sia le doti del conduttore che quelle autoriali che lo aiutano a migliorare i prodotti a cui lavora. A Warner Bros Discovery fornirà i format delle trasmissio­ni che potrà inventare, far comprare o anche produrre. Questo in Rai non era possibile».

Nella prossima stagione i poli televisivi aumentano: essendo ìmpari quella sulle risorse, sposterebb­e la sfida sulle idee?

«Le idee sono fondamenta­li, ma senza soldi la tv generalist­a non si può fare. Quando devi massimizza­re gli ascolti e difenderti da offerte ricche, perdi. Il canone di abbonament­o della Rai è il più basso d’europa, quattro volte inferiore a quello tedesco, più di tre volte di quello inglese, più della metà di quello francese. È stupefacen­te che il calabrone continui a volare».

Bisogna aumentare la tassa più invisa agli italiani?

«Il governo dovrebbe dare all’azienda risorse coerenti con la missione di servizio pubblico. Il canone andrebbe riportato a 90 euro e andrebbe ridotta la tassa di concession­e di 90 milioni che le altre tv non pagano in questa misura. Se si teme il rifiuto di una parte dei cittadini c’è un’altra via».

Sentiamo.

«La Rai dispone di uno strumento efficace per la crescita del Paese e per la concorrenz­a alle piattaform­e. Raiplay ha riavvicina­to i giovani e, con 24 milioni di account, è un dispositiv­o strategico per preservare i codici espressivi nazionali e il modo di raccontare dei grandi artisti dell’immaginari­o italiano. Bisogna avere la forza di lanciare Raiplay, dicendo che servono 20 euro di canone da destinare al prodotto. Sarebbe una piccola grande rivoluzion­e culturale».

In questo scenario come valuta il ruolo di La7 di Urbano Cairo?

«È una television­e con profession­isti di valore e i risultati lo confermano. La mia sensazione è che, forse, la sua narrazione si dimostri leggerment­e datata rispetto ai grandi cambiament­i geopolitic­i e culturali che si sono verificati negli ultimi tempi».

Come rispondere­bbe alla perdita di Amadeus?

«Se Mina accettasse di fare il direttore artistico di Sanremo sarebbe un grande ritorno.

È figlia della

Rai, ha fatto i varietà dell’epoca d’oro, è una grande conoscitri­ce di musica, aggiornata su tutte le nuove tendenze. Con Carlo

Conti all’ariston, sarebbe un colpo straordina­rio. Su Sanremo bisogna avere coraggio e fantasia».

Lei lo avrebbe fatto fare il monologo a Scurati?

«Io gliel’avrei fatto fare, anche se confliggev­a con le norme che vogliono che il sabato precedente al voto sia di silenzio. Tuttavia, mi chiedo: se è agli atti che l’azienda l’aveva consentito a titolo gratuito, perché improvvisa­mente spuntano i soldi e successiva­mente la conduttric­e attacca la Rai sui social e denuncia la censura?».

La politica ha sempre influenzat­o la tv pubblica: la situazione è peggiorata con la riforma Renzi che ne ha spostato il controllo dal Parlamento al governo?

«Il Parlamento e il governo

ESPERTO

sono gli azionisti, è inutile fare gli ipocriti. È così in tutta Europa. In alcuni casi le intrusioni sono leggende. È soprattutt­o la piccola politica a provarci, governo e presidenza del Consiglio di solito si fermano alle nomine apicali. Proprio il caso Scurati lo dimostra: Giorgia Meloni ha pubblicato il monologo sul suo account di Facebook che ha più seguaci degli ascoltator­i del programma».

Buoni dirigenti dovrebbero saper gestire le situazioni.

«In Rai ci sono e un dato lo conferma. Un’impresa operante in un sistema competitiv­o che subisse interferen­ze continue non si manterrebb­e quasi al 40% di share. La Rai sarebbe finita come l’alitalia che è costata 8 miliardi di euro in aiuti allo Stato. Ricordo che quando il governo Ciampi stanziò 200 miliardi di lire per aiutarla in un momento difficile, Letizia Moratti li rifiutò: “La Rai si salva da sola”, disse. E in due anni e mezzo abbattemmo 1.500 miliardi di lire d’indebitame­nto, figlio della guerra contro Berlusconi e della realizzazi­one di Saxa Rubra. Non c’è in Italia un’azienda pubblica o privata, dall’olivetti alla Fiat, che abbia rifiutato gli aiuti dello Stato come ha fatto la Rai».

Sono limiti struttural­i a condiziona­rla? «Dal punto di vista della gestione economica e finanziari­a la Rai è più paralizzat­a di un ente locale. Per stanziare 2.000 euro serve una gara d’appalto. Alle riunioni del cda partecipa un giudice della Corte dei conti con compiti di controllo, una prassi che non c’è in un nessun’altra azienda o amministra­zione pubblica. Agendo in regime di concorrenz­a, andrebbero applicate le norme del diritto privato. Il governo dovrebbe presentare in Parlamento un articolo di poche righe per l’interpreta­zione corretta della natura e dell’azione della Rai».

Tornando alle questioni editoriali, la riforma per aree di genere è stata un errore? «Non è sbagliato rendere autonome le produzioni per generi perché la Rai vive una condizione di multimedia­lità. Le reti producevan­o per sé stesse, mentre le aree per genere declinano i contenuti su più canali e più media, online compreso».

Ma non ci sono più i direttori di rete a dare identità al palinsesto e a rispondere se qualcosa non funziona.

«Giusto. Se si cancellano i responsabi­li delle reti si riduce il carattere identitari­o dell’offerta. È il responsabi­le di rete a sapere quello che gli serve. L’offerta di palinsesto dovrebbe definirsi nel rapporto dialettico tra i responsabi­li di rete e i direttori dei generi».

Dalla passione che ci mette sembra ancora un uomo di vertice della Rai.

«Amo e conosco i meriti di un’azienda che ha inventato il digitale e ha insegnato a parlare agli italiani. Ci sono arrivato quasi cinquant’anni fa, da ragazzo di Calabria…».

Anche lei come Giovanni Minoli invierà il curriculum alla commission­e di Vigilanza per entrare in Cda e magari presiederl­o?

«Ogni stagione ha i suoi incarichi. Adesso mi diverto facendo il produttore».

Pepito le ha dato una seconda giovinezza?

«In un certo senso sì, perché continuo a fare il lavoro che mi ha sempre appassiona­to».

Che cosa le piace del mestiere di produttore cinematogr­afico e audiovisiv­o?

«La meraviglia di partire da un’idea e farla diventare immagini, scene, costumi, facce. Lo stupore di prendere una storia vera come quella di Hammamet, o non vera ma realistica come quella di Favolacce, e farne due film definiti capolavori dai critici. Hammamet in Italia ha incassato quasi 7 milioni di euro, mentre Favolacce è stato venduto in 50 paesi, America compresa, e ha vinto l’orso d’argento a Berlino».

Si producono troppi film d’autore e pochi per il grande pubblico?

«Si producono troppi film che non arrivano al pubblico. Ma credo che questo governo, di cui aspettiamo i decreti sul tax credit e i finanziame­nti, stia lavorando bene contro la dispersion­e delle poche risorse. Le quali vanno concentrat­e

L’ipotesi di Mina direttore artistico di Sanremo è valida Adrebbe affiancata ” da Carlo Cont i

su opere che, per scrittura, regia, cast e referenze del produttore, meritano l’attenzione del ministro della Cultura».

A che progetti sta lavorando?

«Stiamo scrivendo una sceneggiat­ura su Elvira Notari, la prima grande regista e autrice italiana che a Napoli, insieme con il marito, ha inventato tecniche di ripresa, fotografic­he e di colorazion­e delle pellicole prima del colore. Un altro progetto con Rai Cinema riguarda la morte di Cavour, una morte misteriosa e sospetta che va raccontata».

Amo produrre film. Tra i prossimi progetti quello sulla morte di Cavour, ” piena di misteri

con l’iran e si ostina a non considerar­e Hamas un’organizzaz­ione terroristi­ca. Insomma, da una parte l’amministra­zione Biden non ottiene ciò che vuole dalla Cina, mentre dall’altra continua a mantenere con quest’ultima una linea ondivaga. Le ragioni di questa situazione sono due. Innanzitut­to si registrano spaccature in seno allo stesso gabinetto presidenzi­ale tra chi, come la Yellen, auspica rapporti più amichevoli con Pechino a scopi economici e chi, come il consiglio per la sicurezza nazionale americano, è favorevole a una postura più severa su diritti umani e competizio­ne geopolitic­a. Il punto è che la debole leadership di Biden non è riuscita a trovare una sintesi efficace tra queste posizioni contrappos­te: il che ha prodotto una politica spesso confusa, a detrimento della capacità di deterrenza statuniten­se nei confronti del Dragone.

In secondo luogo, la coalizione elettorale che ha portato l’attuale presidente alla Casa Bianca è divisa sulla questione cinese. Se Wall Street e la Silicon Valley prediligon­o la distension­e a fini commercial­i, i colletti blu della Rust Belt invocano la linea dura proprio sul commercio. Non a caso, Biden ha espresso l’intenzione di triplicare le tariffe sull’importazio­ne di acciaio e alluminio dalla Cina. Infine, un elemento interessan­te è emerso da un recente articolo di The Atlantic. Appena entrato in carica, Biden ha spinto a favore della svolta green e delle auto elettriche, ma poi si è ritrovato a dover affrontare la concorrenz­a dei veicoli elettrici cinesi, sempre più numerosi e a basso costo. Ed ecco il dilemma elettorale: se facilita l’accesso di queste auto al mercato americano, Biden si aliena la simpatia dei metalmecca­nici del Michigan; se non lo fa, irrita gli ambientali­sti. Peccato però che, per essere rieletto, abbia bisogno di entrambi.

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Agostino Saccà è stato per 35 anni alla Rai con vari incarichi
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