«I cristiani ridiano un’anima all’ue»
Nel convegno «Ripartire dall’europa», il sottosegretario Mantovano ha ricordato le radici comuni continentali. La cui eclissi ha portato all’attuale Stato di burocrazia
■ Vi propongo innanzitutto non delle considerazioni, ma delle cartoline: delle immagini di luoghi che in Europa hanno qualche senso o di luoghi che, pur non trovandosi in Europa, in questo momento sull’europa incidono.
La prima cartolina è dall’irlanda. Drogheda è una graziosa città a Nord di Dublino. A pochi chilometri da essa, in campagna, sorge Newgrange, un enorme monumento sepolcrale a forma di tronco di cono, con un diametro di circa 100 metri e un’altezza di 9 metri. È stato realizzato fra il 3.000 e il 2.700 a.c. con materiale condotto sul posto da centinaia di chilometri di distanza. Un passaggio lungo poco meno di 20 metri conduce alla camera sepolcrale, nella quale si aprono tre loculi disposti a croce rispetto al passaggio. L’architetto che ha progettato Newgrange è stato così preciso che da circa 5.000 anni la luce del sole penetra nella camera per qualche minuto una sola volta all’anno, alle nove del mattino del 21 dicembre, il giorno del solstizio d’inverno.
Perché ne parlo d’esordio? Perché, molto prima che i cristiani si diffondessero sul suolo europeo, l’europa attendeva, in modo implicito ma non per questo meno reale, il sorgere del sole vero, quello che è venuto al mondo in coincidenza del solstizio d’inverno di 2024 anni or sono. […] Che cosa voglio dire? Voglio dire che non c’è angolo d’europa che non sia stato illuminato dalla luce che in un posto così periferico come Drogheda veniva evocata per indicare la speranza nella vita oltre la morte. Non c’è opera letteraria o artistica europea che possa prescinderne, anche solo per provare a spegnarla. Lo attesta perfino la bandiera dell’unione europea, con le dodici stelle su fondo azzurro, che rinvia direttamente alla madre del figlio di Dio, al di là della consapevolezza del suo significato da parte di chi l’ha adottata. Non rivendico primazie confessionali. È sempre attuale la magistrale lezione di papa Benedetto XVI a Ratisbona, quando - riprendendo il dialogo di Manuele Paleologo col saggio sufi - sottolineava che la fede non si impone con la spada. Quello che vorrei dire è un’altra cosa: a prescindere dalla religione di riferimento, e perfino per un ateo, è certo che senza la radice cristiana, che ha inverato e vivificato le radici greca e romana, l’europa sarebbe rimasta una penisola occidentale del grande continente asiatico: tale è geograficamente. Se l’europa è qualificata come continente è esclusivamente per ragioni storiche e culturali: è perché sulle terre che avevano visto espandersi e rovinare gli imperi greci e romani hanno arato e seminato in tanti, da San Benedetto in poi, i quali hanno fatto crescere i contadi e le città, e in esse le università, i luoghi di cura, le cattedrali e poi le strutture politiche e gli ordinamenti giuridici.
Ripartire dall’europa e ripensare l’unione, […], è concretamente praticabile se si vince un paradosso che ha preso piede da anni, anzi da decenni: quello di istituzioni europee che puntano a rendere tutto eguale, da Stoccolma a La Valletta, dalle dimensioni degli ortaggi alle realizzazioni del Pnrr ma poi rifiutano il solo elemento che realmente identifica e unisce l’europa. Irrigidiscono elementi di dettaglio e rendono fluido quello che invece esige compattezza e decisione: nella verifica preordinata al pagamento di
una delle rate del Pnrr vi è stato, per esempio, il minuzioso accertamento, stanza per stanza, dei posti effettivamente occupati dagli studenti ai fini del finanziamento dell’housing universitario, ma poi ogni nazione europea sembra andare per conto proprio di fronte alle crisi in atto su scenari importanti e critici, interni ed esterni all’ue.
Non parlo solo dell’ucraina o di Gaza. Parlo di quello che accade in un continente come l’africa, diventato centrale anche per l’europa. […] perché fra poco, se non cambia nulla, milioni di profughi sudanesi saranno fra noi. E con loro milioni di siriani, in fuga dal Libano, se la crisi di questa piccola grande nazione si aggraverà. […] Perché gli attacchi Houthi hanno fatto emergere il cosiddetto asse della resistenza che, sotto l’egida dell’iran, lega in azioni paraterroristiche Hamas, Hezbollah e gli stessi Houthi. Questi attacchi possono estendersi al territorio europeo, ma intanto provocano danni enormi alle nostre economie.
[...] (Questa situazione africana, ndr) c’entra (con il discorso sull’europa, ndr), perché puoi pensare non dico di risolvere, ma quanto meno di affrontare con ipotesi plausibili l’insieme di queste crisi se hai, al tempo stesso, riferimenti saldi ed elasticità operativa. Se inverti il rapporto, e cioè ti ingessi sul particolare, pretendi di incasellarti a tutti i costi nella tua procedura burocratica e ideologica e poi perdi di vista i fondamentali, quelli che ti orientano sulle grandi scelte, ti spieghi perché, con rare eccezioni, l’europa di oggi è così incapace di dare risposte a un quadro geo politico che cambia con tanta rapidità. […]
Quando, di fronte alla gravità delle crisi in atto, leggo o ascolto allarmi sulla tenuta dello stato di diritto in Europa, e in particolare in Italia, solo perché stiamo proponendo la separazione delle carriere, allargo le braccia e mi chiedo se, nel contesto tragico in cui viviamo, la replica a chi lancia questi allarmi non sia l’indicazione di qualche psicologo, paziente e ben attrezzato.
[…] Ricordare i limiti delle competenze dell’unione e chiedere che le istituzioni europee non li travalichino non è una degenerazione «sovranista». Il concetto di violazione dello «Stato di diritto» sta diventando, non diversamente da «sovranismo» o populismo, un’etichetta con cui sanzionare ogni disciplina adottata dagli Stati membri che non corrisponda al mainstream «europeisticamente corretto»: anche al di fuori degli ambiti di competenza attribuiti all’unione e perfino contro i principi generali della democrazia e del vero stato di diritto.
Una delle battaglie per ripensare l’ue è recuperare il corretto significato dell’espressione Stato di diritto. Lo si recupera se si punta a una concezione sostanziale del diritto, che riafferma e tutela i diritti naturali della persona; se si ridimensiona il formalismo delle procedure; se si abbatte la stratificazione delle burocrazie; se si aprono prospettive differenti oltre i confini dell’ue. […]
Ripartire dall’europa significa, allora, tornare alle radici. Ripensare l’unione vuol dire mettere da parte l’ideologia da Manifesto di Ventotene, secondo cui tutto deve calare dall’alto, e tornare alla sostanza delle esigenze dei popoli.
E, sul punto, vi è un ultimo quesito che mi permetto di porre, ricollegandomi alla prima cartolina, dalla quale sono partito. In questo lavoro di ripartenza e di ripensamento, che non è confessionale bensì antropologico, quale ruolo può recitare quel che resta del popolo cristiano, dal quale in teoria ci si attenderebbe una postazione in prima fila? Fra il sostegno attivo alle Ong che concorrono ad alimentare il traffico dei migranti e l’abbandono culturale dei presidi naturali, vi è ancora spazio per un contributo di pensiero e di testimonianza? O dobbiamo rassegnarci, quasi senza speranza, a vedere una saracinesca abbassata, col cartello «chiuso per cessazione di attività», perché non si ha più nulla da dire e da fare?
All’ultimo Meeting di Rimini è stata allestita una bella mostra su Charles Péguy. Di Péguy si ricordano tanti passaggi acuti; ne riprendo uno: «La disperazione», egli dice, «è il peccato più grave, perché è il rifiuto a trarre profitto dalle infecondità dell’insuccesso». Giuda si perde perché non ha più speranza, più ancora che per aver tradito. Il peccato più grave è, dopo aver scambiato la luce con i lumi ed esserne stati pesantemente delusi, immaginare che la luce vera, quella preconizzata a Newgrange e accesa da duemila anni in ogni angolo d’europa, si sia spenta definitivamente. […]