I libri di Moresco ci insegnano l’arte di esplorare il mondo camminando
Le sue opere raccontano i vagabondaggi solitari di notte nelle città in cui ha vissuto e i lunghi percorsi in compagnia con la sua «Repubblica nomade». In centri urbani desolati o persi nei boschi deserti
■ Il Salone del libro di Torino è l’occ asione per vedere dal vivo scrittori, autori, giornalisti e tutti coloro che per qualche ragione sono legati al libro, in ogni sua forma e variazione. Ma è anche un’opportunità per scovare editori minori o meno visibili, scandagliare cataloghi non di rado nella loro completezza, al contrario di quel che non è possibile, per evidenti ragioni di spazio e scelte, nelle librerie dove andiamo ad affienarci abitualmente. E così si possono recuperare libri che avevamo intercettato all’uscita ma poi perduto. Nel placido e corroborante Bosco degli scrittori dell’editore Aboca ho ritrovato il minuto libello Il sogno del cammino di Antonio Moresco, 72 pagine. In questa pubblicazione sono collezionati due testi di Moresco dedicati all’arte e alla pratica del camminare: il primo
Camminare da solo, di notte, ci racconta di un’abitudine che lo scrittore mantovano ha iniziato a sviluppare dai 30 anni, attraversando di notte tutte le città dove ha vissuto, mentre il secondo, Il mio cammino, il nostro cammino, relaziona del suo camminare per lunghi tragitti in Italia e altrove, insieme con altre persone, un camminare collettivo ribattezzato «Repubblica nomade». Ho conosciuto Moresco nel primissimo periodo del suo affermarsi, quando uscì con i primi libelli per Bollati Boringhieri, dopo anni di rifiuti editoriali collezionati da molti editori che dopo, col senno di poi, l’hanno recuperato e pubblicato alternativamente. Ho assistito a una prima presentazione proprio nello stand della Boringhieri, sul finire del secolo scorso, eravamo una manciata di uditori e lettori, il successo vero e proprio sarebbe arrivato pochi anni dopo, col teatro, la pièce La Santa , portata in scena da Teatro aperto per le celebrazioni del Giubileo del 2000, il ciclo Sette spettacoli per un nuovo teatro Italiano, voluto da Mario Martone al Teatro di Roma, e soprattutto con opere quali Gli esordi, Canti del Caos, Lettere a Nessuno e tutto quel che è maturato successivamente.
La natura di cui parliamo oggi è più generica, meno legata a selve o muschi, è semmai la natura dell’esistenza, la natura delle cose, la natura della nostra anima vagante e assetata di conoscenza. In molte opere, Moresco è un personaggio che si inoltra (anche) nella notte, tra volti, anime solitarie e perdute, marciapiedi, vetrine e locali, piazze vuote, lampioni gracchianti e tutto quel mondo capovolto che il buio imprigiona in un’eternità apparentemente senza fine; oppure viaggia tra opere, luoghi, case, incontri con figure totemiche della nostra cultura moderna e non soltanto. Di certo romanzimondo della continua trasformazione e trasfusione, e basti pensare a Gli incendiati , agli stessi Canti del Caso, a
Lo sbrego, al Canto degli alberi o al recente Canto del buio e della luce. Anche nel minuto La lucina, a mio parere una delle sue migliori «cose», fiaba sulla solitudine e l’immaginazione che si scatena quando ci si abbandona al silenzio fronzoso dei boschi, il protagonista, un alter ego di Antonio, si rifugia in un borgo abbandonato di montagna, ogni tanto cammina, si muove per capire che mondo esiste lì intorno a sé, e così, muovendosi nello spazio, esercitando i sensi, assorbe la realtà circostante, finché nota, sospesa tra gli alberi, una lucina, che evidentemente arriva da una stanza illuminata dove vivrà qualcuno. Ma chi?
In Camminare da solo, di notte Moresco si dichiara apertamente: «Non avevo una strada, stavo solo conficcando la mia povera testa cieca nell’infinito buio del mondo […] ero pieno di ferite, non riuscivo a sopportare il buio della mia vita e tutto il dolore e il male che avevo vissuto […] Riprendevo a camminare, un passo dopo l’altro, non so verso dove. Le strade erano ancora lì, il mondo era ancora lì, il mondo o la sua visione […] nell’infinito buio del mondo…» Già; l’infinito buio del mondo, la visione della realtà e della vita di Moresco non si può certo dire positiva o ottimistica, ammesso che questi siano caratteri in qualche modo utili e necessari. Moresco è d’altronde noto per la verticalità della sua espressione, sia in un senso, risalendo fino al sublime, sia sprofondando nell’insignificabile: «Perché sto continuando a tentare di aprire un varco attraverso la cruna della letteratura? A cosa è servito? A che cosa serve? Il mondo è perduto, le persone sembrano una cosa e invece sono un’altra […] Le persone ingannano tutti, anche se stesse, e non ci sarà un giudizio». Non siamo di fronte a un autore consolatorio.
Scrittori quali Dario Voltolini , Luca Ragagnin e Massimiliano Parente sostengono da tempo che il migliore scrittore italiano, tra i viventi, sia proprio Moresco, e su questo tipo di affermazione si potrebbe fare dell’ironia, partendo ad esempio dalla popolarità mediatica, o dalla frequentazione festivaliera, o ancora dai dati di vendita che posizionano Moresco non proprio al vertice della commercializzazione culturale; eppure? Eppure la dimensione della scrittura di Moresco è unica, di certo originale, la sua identità è affidata a opere che diversi editori hanno pubblicato e ripubblicato, di certo non stravenduto, appunto, eppure se autori di gialli quali Andrea Camilleri o Antonio Manzini rappresentano volti noti, amati, letti, l’oscurità del mondo scritto e fitto di Moresco resta un caso a parte, forse talora eccessivamente lodato dai lettori dei blog, quelli che un tempo si sarebbero chiamati «nerd», ma certificato anche dalla traduzione in altre lingue e dall’accoglienza oltreconfine, ad esempio in Germania o in Francia.
La sua unicità può essere certificata anche dall’avventura delle varie uscite di uno dei suoi titoli più noti, Canti del Caos: la prima parte venne pubblicata da Feltrinelli nel 2001, la seconda nel 2003 per Rizzoli, quindi nella sua forma integrale nel 2009, le prime due parti riviste con l’aggiunta della terza, in un unico tomone di 1.080 pagine per Mondadori; da pochi giorni è fiorita nelle librerie una nuova edizione integrale nell’economica universale Feltrinelli.
Ma qual è dunque l’essenza di questo nomade del nostro tempo? Ce lo dice lui stesso, in apertura a Lettere a Nessuno, forse il suo capolavoro: «Non esisti più per nessuno. Non esiste più nessuno». Eppure le sue pagine restano, le sue esplorazioni ci richiamano, quest’anima senza pace e sosta è ombra della nostra, ci accompagna, ci disturba, ci sussurra. Usciamo a fare due passi?
Ha collezionato tanti rifiuti di editori che dopo l’hanno riscoperto
È considerato da molti il più grande scrittore italiano vivente
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