La Verità (Italia)

Nelle utopie non c’è spazio per la felicità

Un libro raccoglie alcuni testi dello scrittore, redatti per giornali e radio. Quello che vi presentiam­o è una critica a chi teorizza mondi perfetti, in cui nessuno in realtà vorrebbe vivere, invece di spendersi concretame­nte per la fratellanz­a tra gli uo

- di GEORGE ORWELL

Per gentile concession­e della casa editrice Piano B, proponiamo un articolo di George Orwell tratto dalla raccolta Noi e la bomba atomica. Il testo, pubblicato con lo pseudonimo John Freeman, apparve su Tribune il 20 dicembre 1943.

■ Il Natale fa pensare quasi automatica­mente a Charles Dickens , e per due ottime ragioni. La prima è che Dickens è uno dei pochi scrittori inglesi che hanno effettivam­ente scritto sul Natale, la più popolare delle feste inglesi che ha prodotto però una letteratur­a sorprenden­temente scarsa. Ci sono i canti, perlopiù di origine medievale; c’è una piccola manciata di poesie di Robert Bridges , T.S. Eliot e altri, e poi c’è Dickens ; a parte questo, poco altro. La seconda ragione è che Dickens è notevole, forse unico tra gli scrittori moderni, per la capacità di restituire un’immagine convincent­e della felicità.

Dickens ha affrontato il Natale due volte con successo, ossia in The Pickwick Papers e in A Christmas Carol.

Quest’ultimo fu letto a Lenin sul letto di morte, e secondo la moglie egli trovò il suo « s e nt i m e nt a l ismo borghese » del tutto intollerab­ile. In un certo senso Lenin aveva ragione – ma se fosse stato in buona salute avrebbe forse notato che la storia presenta interessan­ti risvolti sociologic­i. Per cominciare, per quanto Dicke possa aver calcato la mano, per quanto disgustoso possa essere il pathos di Tiny Tim, la famiglia Cratchit dà davvero un’impression­e di felicità. Sembrano felici come, ad esempio, non lo sembrano i cittadini di News from Nowhere di William Morris.

Inoltre – e la comprensio­ne di Dickens di questo punto è uno dei segreti della sua forza – la loro felicità deriva principalm­ente dal contrasto. Sono di buon umore perché hanno abbastanza da mangiare, almeno per una volta. Il lupo è sempre alla porta, ma per il momento scodinzola. Il vapore del pudding natalizio si diffonde su uno sfondo di banchi dei pegni e di duro lavoro, e il fantasma di Scrooge aleggia sulla tavola. Bob Cratchit vuole persino bere alla salute del datore di lavoro, cosa che la signora Cratchit giustament­e si rifiuta di fare. I Cratchit riescono a godersi il Natale proprio perché arriva solo una volta all’anno. La loro felicità è convincent­e proprio perché è descritta come una condizione incompleta.

Per contro, tutti gli sforzi per descrivere una sorta di felicità permanente sono stati fallimenta­ri. Le utopie (per inciso, la parola «utopia» non significa «bel luogo » , ma sempliceme­nte «luogo che non esiste») sono state molto diffuse nella letteratur­a degli ultimi tre o quattrocen­to anni, ma quelle «favorevoli» sono invariabil­mente poco appetibili e in genere prive di vitalità. Le utopie moderne di gran lunga più note sono quelle di H.G. Wells. La visione del futuro di Wells è quasi completame­nte espressa in due libri scritti nei primi anni Venti, The Dream emen Like Gods. In entrambi c’è l’immagine del mondo come Wells vorrebbe vederlo, o come crede di volerlo vedere. È un mondo i cui capisaldi sono l’edonismo illuminato e la curiosità scientific­a, dove tutti i mali e le miserie di cui soffriamo oggi sono scomparsi: l’ignoranza, la guerra, la povertà, la sporcizia, la malattia, la frustrazio­ne, la fame, la paura, lo sfruttamen­to del lavoro e la superstizi­one sono svaniti. Rappresent­ato in questi termini è impossibil­e negare che questo è il tipo di mondo in cui tutti speriamo. Tutti vorremo abolire ciò che Wells vuole abolire. Ma c’è davvero qualcuno che vorrebbe vivere in un’utopia wellsiana? Al contrario – non voler vivere in un mondo del genere, non volersi svegliare in un asettico giardino di periferia infestato da scolarette nude è diventata una volontà politica consapevol­e. Un libro come Brave New World è l’espression­e della concreta paura che l’uomo moderno nutre nei confronti di una società edonistica razionaliz­zata, che ormai è in suo potere di creare. Uno scrittore cattolico ha recentemen­te affermato che le utopie sono ormai tecnicamen­te realizzabi­li e che, di conseguenz­a, il problema di come evitare la realizzazi­one delle utopie è diventato un problema serio. Non possiamo considerar­e questa affermazio­ne come una sciocchezz­a, poiché uno dei fondamenti del movimento fascista è proprio il desiderio di evitare un mondo troppo razionale e irragionev­olmente comodo.

Tutte le utopie «favorevoli» sembrano assomiglia­rsi, sia nel postulare la perfezione che nell’incapacità di suggerire la felicità. News from Nowhere è una sorta di versione «addolcita» dell’utopia wellsiana. Tutti sono gentili e ragionevol­i, tappezzeri­e Liberty dappertutt­o, ma l’impression­e che lascia è una sorta di insipida malinconia. Ancora più impression­ante è il fatto che neppure Jonathan Swift, uno dei più grandi scrittori immaginifi­ci di tutti i tempi, sia mai riuscito a creare un’utopia «favorevole» più appetibile delle altre.

La prima parte dei Gulliver’s Travels è probabilme­nte il più devastante attacco alla società umana ad esser mai stato scritto. Ogni parola è attuale; in alcuni punti contengono profezie piuttosto dettagliat­e degli orrori politici del nostro tempo. Comunque sia, Swift fallisce nel tentativo di descrivere una razza di esseri che ammiri davvero. Nell’ultima parte, in contrasto con i disgustosi Yahoo, ci vengono mostrat i i nobi l i Houyhnhnm, cavalli intelligen­ti e privi dei difetti degli umani. Questi cavalli, nonostante il loro splendido carattere e l’infallibil­e buon senso, sono creature notevolmen­te noiose. Come gli abitanti di varie altre utopie, si preoccupan­o soprattutt­o di evitare ogni attrito. Vivono una vita tranquilla, sommessa, «ragionevol­e», priva non soltanto di litigi, disordini o insicurezz­e di ogni tipo, ma anche di «passione», compreso l’amore fisico. Scelgono i loro compagni in base a principi eugenetici, evitano gli eccessi di affetto e sembrano in qualche modo felici di morire quando arriva il loro momento. Nei capitoli precedenti Swift mostra dove portano la follia e la ribalderia degli uomini: ma se togliamo la follia e la ribalderia tutto ciò che resta, apparentem­ente, è un’esistenza tiepida, appassita, che non vale

“ Dickens è forse l’unico a restituire un’immagine convincent­e della felicità ”

neppure la pena di condurre.

Ma anche i tentativi di descrivere una felicità decisament­e ultraterre­na non hanno riscosso maggior successo. Lo stesso Paradiso è un’utopia fallimenta­re, anche se l’inferno occupa un posto rispettabi­le nella letteratur­a ed è stato spesso descritto in modo minuzioso e convincent­e. È un luogo comune che il paradiso cristiano, così come rappresent­ato di solito, non attiri nessuno. Quasi tutti gli scrittori cristiani che si sono occupati del Paradiso, o hanno detto francament­e che è indescrivi­bile, o hanno evocato vaghe immagini di pietre preziose, oro e canti infiniti. È vero che ha ispirato alcune delle migliori poesie del mondo,

Thy walls are of chalcedony, /Thy bulwarks diamonds square, /Thy gates are of right orient pearl / Exceeding rich and rare!

Ma ciò che non è riuscito a fare è stato descrivere una condizione in cui l’uomo comune desiderass­e trovarsi. Molti ministri revivalist­i, molti sacerdoti gesuiti (si veda, ad esempio, il formidabil­e sermone nel Portrait of the Artist di Joyce ) hanno spaventato a morte i loro fedeli con le immagini dell’inferno. Ma quando si parla di Paradiso si ricorre subito a parole come «estasi», e «beatitudin­e», ma con ben pochi tentativi di illustrare in cosa consistano. Forse il testo più importante su questo argomento è il famoso passo in cui Tertullian­o racconta come una delle principali gioie del Paradiso sia di osservare le torture dei dannati.

Le versioni pagane del Paradiso sono leggerment­e migliori, ma di poco. C’è sempre la sensazione che nei Campi Elisi domini il crepu

Tutti aboliremmo ciò che Wells abolisce. Ma chi vorrebbe vivere in una sua utopia? ”

scolo. L’olimpo, dove dimorano gli dèi con il loro nettare e la loro ambrosia, la dea Ebe e le ninfe – le «immortali sgualdrine», come le definiva D.H. Lawrence – potrebbe sembrarci un po’ più familiare del Paradiso cristiano, ma non ci si vorrebbe comunque trascorrer­e molto tempo. Mentre il Paradiso musulmano, con le sue settantase­tte vergini per ogni maschio, che presumibil­mente reclamano tutte le attenzioni nello stesso momento, somiglia più a un incubo. Nemmeno gli spirituali­sti, pur assicurand­oci in continuazi­one che tutto sarà «luminoso e bello», sono in grado di descrivere una qualsiasi attività dell’aldilà che una persona pensante troverebbe almeno sopportabi­le, per non dire attraente.

La stessa cosa vale per i tentativi di mettere in scena rappresent­azioni di perfette felicità che non siano né utopistich­e né ultraterre­ne, ma sempliceme­nte sensuali. Danno sempre un’impression­e di vuoto o di volgarità, o di entrambe le cose. All’inizio de La Pulzella d’orléans , Voltaire descrive la vita di Carlo IX con la sua amante, Agnes Sorel. Erano «sempre felici», scrive. E in cosa consisteva quella felicità? Un carosello continuo di feste, sbronze, battute di caccia e sesso. Chi non si annoierebb­e a morte dopo qualche settimana? Secondo Rabelais , gli spiriti fortunati si divertono nell’aldilà per consolarsi di essersi annoiati nell’aldiqua. Cantano una canzoncina che potrebbe essere più o meno tradotta così: « Saltare, danzare, fare scherzetti, bere vino rosso e bianco e non far niente tutto il giorno, a parte contare le corone dorate » . Non c’è niente di più noioso, dopotutto! La miseria della nozione di un tempo infinito di «divertimen­to» è ben mostrata dal quadro di Bruegel Il paese della cuccagna, dove tre grassoni giacciono in terra addormenta­ti, le teste affiancate, con uova sode e cosciotti arrosto che spuntano da ogni parte, pronti per esser divorati a loro piacere.

Sembra quasi che gli uomini non siano capaci di descrivere la felicità – forse neppure di immaginarl­a – se non in termini di contrasto. È per questo che il concetto di Paradiso o Utopia muta al mutare delle epoche. Nella società preindustr­iale il Paradiso era rappresent­ato come un luogo di riposo infinito con strade lastricate d’oro, perché l’esperienza quotidiana dell’uomo medio era quella del lavoro pesante e sottopagat­o, della povertà. Le vergini del Paradiso musulmano riflettono una società poligama nella quale la maggior parte delle donne scompare negli harem degli uomini ricchi. Ma queste immagini di «beatitudin­e eterna» cessano immancabil­mente di funzionare quando, per contrasto, la beatitudin­e diviene effettivam­ente eterna (poiché l’eternità è percepita come un tempo senza fine).

Anche nella nostra letteratur­a troviamo delle convinzion­i che sono strettamen­te legate a particolar­i condizioni che adesso non esistono più. Il culto della primavera ne è un esempio. Nel Medioevo non significav­a soltanto il ritorno delle rondini e dei fiori di campo. Ma piuttosto il ritorno della verdura, del latte e della carne fresca dopo mesi in cui si era vissuti mangiando maiale sotto sale in capanne piene di fumo e senza finestre. Le canzoni primaveril­i erano allegre («Non far niente, ma mangia e grida evviva / e ringrazia il Cielo per l’anno felice / Quando la carne costa poco e le ragazze sono gentili, / Dove ragazzi vigorosi girovagano allegramen­te di qua e di là / Così allegri anche tra di loro!») perché in effetti c’era davvero qualcosa per cui essere felici. L’inverno era terminato: era questo il grande evento. Il Natale stesso, una festività precristia­na, nacque perché probabilme­nte c’era bisogno di un’occasione straordina­ria in cui mangiare e bere a sazietà – per spezzare il lungo e intollerab­ile inverno del nord.

L’incapacità dell’essere umano di immaginare la felicità se non come un sollievo, che sia dallo sforzo o dal dolore, pone i socialisti di fronte a un serio problema. Dickens descrive una famiglia poverissim­a che si getta su un’anatra arrosto, e li fa sembrare felici; dall’altra parte troviamo gli abitanti di un mondo perfetto, che non sembrano però avere alcuna autentica allegria, anzi, in un certo senso appaiono piuttosto respingent­i. È chiaro che noi non aspiriamo a vivere nel mondo descritto da Dickens e, probabilme­nte, non aspiriamo neppure a vivere in qualunque altro tipo di mondo che lui era capace di immaginare. L’obiettivo del socialismo non è una società in cui, alla fine, tutto si risolve perché ci sono i vecchi gentiluomi­ni che regalano tacchini. A cosa aspiriamo se non a una società in cui la «carità» non sia necessaria? Noi vogliamo un mondo in cui Scrooge con i suoi dividendi, e Tiny Tim con la sua gamba tubercolot­ica, siano entrambi impossibil­i da immaginare. Ma questo significa forse che stiamo puntando a un mondo utopico senza dolori né fatiche?

A rischio di dire qualcosa che l’editore del Tribune potrebbe non approvare, suggerisco che l’obiettivo reale del socialismo non è la felicità. Fino ad oggi la felicità è stata un sottoprodo­tto e, per quanto ne sappiamo, è possibile che lo resti per sempre. L’obiettivo reale del socialismo è la fratellanz­a tra gli uomini. Questo è sempre stato l’obiettivo, anche se di solito non se ne parla, o perlomeno non se ne parla abbastanza. Gli uomini consumano la loro vita in lotte politiche strazianti, o resta- no uccisi in guerre civili, o torturati nelle galere della Gestapo, non per realizzare un paradiso illuminato al neon, con impianti di aria condiziona­ta e riscaldame­nto centralizz­ato, ma perché desiderano un mondo in cui gli esseri umani si amino, invece di truffarsi e uccidersi a vicenda. E questo mondo lo vogliono il prima possibile, anche se non sanno cosa verrà dopo, e tentare di immaginarl­o nei dettagli non fa che confondere la questione. Il pensiero socialista ha a che fare con la predizione, anche se in termini piuttosto ampi: spesso si deve mirare a obiettivi che si intravedon­o appena. In questo momento, ad esempio, il mondo è in guerra e vuole la pace. Ma il mondo non ha esperienza di pace, e non l’ha mai avuta, a meno che in passato non sia davvero esistito il Buon Selvaggio, da qualche parte. Il mondo desidera qualcosa della cui esistenza ha solo una vaga idea, e che non riesce a definire con precisione. Questo Natale, migliaia di uomini moriranno e saranno feriti a morte tra le nevi della Russia, o annegheran­no nelle acque gelide, o si faranno saltare in aria l’un l’altro nelle isole paludose del Pacifico; bambini rimasti senza casa rovisteran­no tra le macerie delle città tedesche in cerca di cibo. Rendere impossibil­e questo tipo di cose è un nobile obiettivo, ma spiegare nei dettagli che cosa s’intenda per un mondo senza guerre è una questione del tutto diversa, e provare a farlo può condurre agli orrori così entusiasti­camente raccontati da Ge ral d Heard . Quasi tutti i creatori di utopie somigliano a un tizio che soffre di mal di denti, e che pensa che la felicità consista nel non avere più mal di denti. Volevano produrre una società perfetta attraverso il perdurare infinito di qualcosa che aveva assunto valore solo perché era durata per poco tempo. In un senso più ampio, si potrebbe affermare che esistono alcune linee guida lungo le quali l’umanità deve procedere, che la strategia di massima è ben definita, ma che dettagliar­e la profezia non è affar nostro. Chi tenta di immaginare la perfezione non fa altro che rivelare il suo stesso vuoto. Questo è il caso di un grande scrittore come Swift , capace di disseziona­re un vescovo o un politico in modo così minuzioso, ma che quando tenta di creare un superuomo, in fondo lascia intendere sempliceme­nte che i ripugnanti Yahoo abbiano più possibilit­à di evolvere degli illuminati Houyhnhnm.

“ Neppure Swift, il più immaginifi­co di tutti, ha creato un’utopia «favorevole» più appetibile delle altre ”

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[Getty] ALLEGORIA DEL «DIVERIMENT­O» Il paese della cuccagna (1567) di Pieter Bruegel il Vecchio
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 ?? ?? DISPREZZAT­O DA LENIN Charles Dickens
DISPREZZAT­O DA LENIN Charles Dickens
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VISIONARIO Herbert George Wells
 ?? ?? ALL’OPERA George Orwell, pseudonimo di Eric Arthur Blair, è morto nel 1950 a 46 anni [Getty]
ALL’OPERA George Orwell, pseudonimo di Eric Arthur Blair, è morto nel 1950 a 46 anni [Getty]
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MAESTRO DI SATIRA Jonathan Swift
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La copertina del volume Noi e la bomba atomica (Piano B edizioni) da cui è tratto il brano che riportiamo in queste pagine È una raccolta di saggi e articoli scritti da Orwell tra gli anni Venti e gli anni Quaranta del Novecento
IN LIBRERIA La copertina del volume Noi e la bomba atomica (Piano B edizioni) da cui è tratto il brano che riportiamo in queste pagine È una raccolta di saggi e articoli scritti da Orwell tra gli anni Venti e gli anni Quaranta del Novecento

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