«Ignorò le soffiate sulle stragi» Mori ancora indagato (a 85 anni)
Il generale sotto inchiesta a Firenze: «Era a conoscenza degli attentati di Cosa nostra»
■ Dopo l’assoluzione (l’ennesima) definitiva nel processo per la cosiddetta «trattativa Stato-mafia», il generale Mario Mori, ex comandante del Ros dei carabinieri ed ex capo del Sisde, pensava che le inchieste nei suoi confronti fossero finite. Invece ieri, l’ottantacinquenne ex ufficiale dell’arma, ha reso noto di essere indagato dalla Procura di Firenze nell’ambito dell’inchiesta per le stragi di mafia che hanno insanguinato l’italia a cavallo tra il 1993 e il 1994. I capi d’accusa contenuti nell’invito a comparire inviato a Mori (che doveva essere interrogato il 23 maggio, ma la data verrà probabilmente spostata per un impegno del suo difensore) dal procuratore di Firenze Filippo Spiezia, dagli aggiunti Luca Turco e Luca Tescaroli, sono da ergastolo. Il generale è infatti indagato per i reati di strage, associazione mafiosa e associazione con finalità di terrorismo internazionale ed eversione dell’ordine democratico. Secondo la Direzione distrettuale antimafia, Mori, «in concorso con altri soggetti», in qualità di ufficiale dell’arma dei carabinieri «pur avendone l’obbligo giuridico, non impediva, mediante doverose segnalazioni e/o denunce all’autorità giudiziaria, o «con l’adozione di autonome iniziative investigative e/o preventive», le stragi «di cui aveva avuto plurime anticipazioni». A Mori i pm contestano quindi, la strage del 27 maggio 1993 in via dei Georgofili a Firenze, quella via Palestro a Milano del 27 luglio dello stesso anno, le due bombe piazzate a Roma a San Giovanni in Laterano e San Giorgio al Velabro il 28 luglio 1993, e il mancato attentato, sempre nella Capitale, a ridosso dello Stadio Olimpico, del 23 gennaio 1994, fallito per il mancato funzionamento del telecomando che avrebbe dovuto far esplodere l’ordigno. Secondo i pm, Mori, all’epoca vicecomandante del Ros, sarebbe «stato informato, dapprima nell’agosto 1992, dal maresciallo Roberto Tempesta, del proposito di Cosa nostra, veicolatogli dalla fonte Paolo Bellini, di attentare al patrimonio storico, artistico e monumentale della Nazione e, in particolare, alla torre di Pisa e, successivamente, da Angelo Siino (l’ex “ministro dei lavori pubblici” di Cosa nostra, ndr), che lo aveva appreso da Antonino Gioè , da Gaetano Sangiorgi e da Massimo Berruti, durante il colloquio investigativo intercorso a Carinola il 25 giugno 1993, il quale gli aveva espressamente comunicato che vi sarebbero stati attentati al Nord».
Quello che per i magistrati fiorentini è la «fonte» Bellini, è in realtà una figura molto complessa. Condannato per l’omicidio, vicino agli ambienti dell’estrema destra, nel 2022 è stato condannato all’ergastolo per la strage del 2 agosto 1980 alla stazione di Bologna. Durante il processo di appello Bellini ha sostenuto di aver agito per conto dell’allora procuratore di Bologna Ugo Sisti, per evitare la strage: «Sisti mi affidò alcuni incarichi. Uno dei quali nel 1980, a Bologna, dopo il funerale di Vittorio Bachelet, che era caro amico di Sisti […]. Mi misi a disposizione e poco tempo dopo al Santuario di Pietralba, tra Trento e Bolzano, mi fecero fare un giuramento, conservo ancora il santino, che era una cartina di
tornasole se qualcuno mi contattava» Del gruppo, secondo Bellini, avrebbe fatto parte anche l’ex segretario della Dc Flaminio Piccoli. Mori ieri ha ricordato come le nuove accuse non tengano conto di quanto stabilito dalla sentenza definitiva sulla «trattativa Statomafia» che ha accertato che il suo operato «ebbe come finalità precipua ed anzi esclusiva quella di scongiurare il rischio di nuove stragi».