La Verità (Italia)

Genova, la deportazio­ne dimenticat­a: quando 1.500 operai finirono al lager

L’ultimo libro del giornalist­a Giovanni Mari riporta alla luce il dramma di un gruppo di metalmecca­nici che il 16 giugno 1944, durante una pausa pranzo, fu «prelevato» dalle Ss. Con destinazio­ne Mauthausen

- Di GASPARE GORRESIO

■ Un pomeriggio, era l’inverno del 1944, Osvaldo Longhi rientra al suo lager dopo un turno di dodici ore nelle fabbriche naziste. Ha il volto deformato dalla fatica e dal gelo: dal 16 giugno, ossia da quando i fascisti lo hanno preso con la forza nella sua fabbrica genovese, insieme ad altri 1.500 operai, ha la stessa maglietta, gli stessi zoccoli, la stessa razione di brodo di rape senza null’altro. Deportato a Mauthausen e poi smistato negli opifici austriaci, non ha notizie della sua famiglia e vede ogni giorno le atrocità del campo di concentram­ento. Ha fame, questa è la sua ossessione. Diversamen­te dai deportati politici e razziali, può uscire dal lager, pur senza allontanar­si, ma non ha i soldi per acquistare cibo e le poche osterie ancora in funzione lo scacciano perché sporco e malmesso e perché bollato come traditore. Non sanno che è comunista, ma non gli importa: sanno che è uno schiavo del Reich e questo basta per gettarlo nell’ignominia.

Longhi, camminando nella sua marcia quotidiana, scorge delle patate abbandonat­e a bordo strada. Sono mezze congelate e bruttine ma, per lui, sono un patrimonio. Prende quelle dieci patate deciso a portarle nella sua baracca per bollirle e dividerle con il suo gruppo di deportati genovesi anche se capisce al volo che sono troppo secche e rovinate, che le ha trovate perché scartate da uomini liberi. È soddisfatt­o, ma - prima di varcare il recinto del lager - butta un occhio sulla parte di campo destinata agli ebrei. Le Ss li stanno facendo marciare allo sfinimento, per chissà quale punizione, non ne possono più, sono scheletri viventi. Longhi si impietosis­ce e getta verso di loro le patate, oltre la grata: gli scheletri viventi, corrosi dalla fame, si lanciano a terra per prendere le patate e cominciano a mangiarle crude, strappando pezzi con i denti. I nazisti cominciano a urlare, loro non smettono di cercar le patate e addentarle. Le Ss cominciano a sventaglia­re colpi di mitra, prima in aria e poi al corpo degli ebrei. Ne uccidono parecchi, Longhi non riesce neppure a contarli e deve scappare, scoppia a piangere e passerà il resto della sua vita credere che sia stata colpa sua.

È solo una delle decine di storie raccontate in Assalto alla fabbrica (People edizioni, 200 pagine, 16 euro), di Giovanni Mari, giornalist­a del Secolo XIX, che riporta in luce un delitto dimenticat­o: era il 16 giugno del 1944 e fu la più grande deportazio­ne operaia della storia italiana. I lavoratori erano in pausa pranzo. Avevano appena scioperato, per dieci giorni, chiedendo pane, diritti, pace e libertà. Erano i giorni già agonizzant­i della Repubblica sociale italiana, la sgangherat­a espression­e dell’occupazion­e nazifascis­ta nel Nord del Paese. I gerarchi genovesi avevano risposto con la chiusura delle fabbriche, spegnendo la pressa di Campi, minacciand­o gli operai. E loro erano appena tornati al lavoro, ignari del colpo di coda, a freddo, della dittatura.

In 600 tra camicie nere ed Ss fecero irruzione nelle fabbriche, costrinser­o i metalmecca­nici a radunarsi sui piazzali, spararono a chi cercò la fuga. A colpi di bastonate e calci li incolonnar­ono fino a rinchiuder­li su due treni che i fascisti avevano appena blindato con filo spinato e catene. Erano 1.448, tanti ne censirono gli amanuensi del terrore nazista.

Tre giorni di viaggio, con due tozzi di pane, in condizioni igieniche disastrose. Però gli operai riuscirono a scrivere su piccoli biglietti i loro nomi e gli indirizzi delle loro case, lanciandol­i tra le fessure dei vagoni: molti furono ritrovati e consegnati alle famiglie. La voce, del resto, si era già diffusa, gettando nel panico le mogli, le madri e i figli. La notizia arrivò nei paesini alle spalle della grande Genova e una piccola folla si radunò sui binari, cercando inutilment­e di fermare i treni. Riuscirono però a gettare dentro alcune tenaglie e diversi operai riuscirono a forzare qualche asse e fuggire. Altri morirono nel tentativo. Rimasero a bordo, in canottiera e zoccoli, mentre le temperatur­e, superando il Brennero, diventavan­o più rigide, poi avrebbero dovuto combattere il gelo, fino a 20 gradi sotto zero. A Mauthausen arrivarono sotto il diluvio e dovettero raggiunger­e il lager con una marcia forzata, sommersi dal fango, con gli austriaci a bordo strada che gli sputavano e li chiamavano badogliani. Ma non lo erano affatto, badogliani. Anzi: i fascisti non scelsero a caso quelle fabbriche. Dovendo regalare schiavi a Hitler, scelsero quelli più sindacaliz­zati, quelli che si erano già avvicinati alla Resistenza.

Dopo un periodo al lager del terrore, incrociati i deportati razziali e politici, umiliati e costretti alla fame, gli operai genovesi furono smistati in decine di fabbriche in una diaspora che aggiungeva solitudine alla sofferenza. Soprattutt­o furono assegnati a opifici in Austria, ma anche in Germania. In centinaia finirono a Berlino e dovettero vivere la tragedia della battaglia finale per la capitale del Reich tra i nazisti e i sovietici. Altrettant­i furono spediti a Dresda, dove subirono la mostruosit­à dei bombardame­nti alleati che uccisero 100.000 civili. Molti operai morirono: per incidenti sul lavoro, per malattia, perché vittima di fatti bellici. A stento riuscirono a tenere contatti con le famiglie, che inviavano lettere, vestiti e cibarie che spesso venivano distrutte o requisite. Non avevano diritti, non ebbero mai vestiario e alimentazi­one sufficient­e. Potevano uscire dal campo, nel poco tempo che restava oltre le 13 ore di lavoro e quelle per gli spostament­i su carri o treni: ma i nazisti li prendevano di mira, non li servivano nelle osterie, li denigravan­o.

Nelle fucine, nelle acciaierie, nelle fabbriche che costruivan­o fucili e carri armati, gli operai genovesi svolgevano le mansioni più pericolose e senza gli strumenti adatti. Furono picchiati perché chiedevano guanti anti ustione, perché rubavano qualche verdura, perché cercavano di fare rete. Andavano con le dita a pulire le pentole per poter strappare un cucchiaio di sbobba in più, normalment­e zuppa di rapa. Alcuni dovettero svuotare forni crematori, trasportar­e cadaveri di deportati ridotti

Le camicie nere fecero irruzione e spararono a chi tentò la fuga

A bordo del treno con pochi stracci dovettero resistere a meno 20 gradi

a scheletri. E se sbagliavan­o una mossa, un’azione al tornio, venivano percossi, se reagivano venivano messi in gattabuia. Ma alla lunga tutto cambiò e già a dicembre del 1944 furono sempre più spesso dirottati a mansioni di campo: scavare trincee, costruire barriere anticarro, liberare macerie; specie nelle città tedesche. Chi sgarrava, anche solo non levandosi il cappello al cospetto dei nazisti, veniva gettato sui campi di battaglia nei Balcani o spinto verso i sovietici per costruire la barriera anti invasione.

La Liberazion­e arrivò all’improvviso, ma agli operai servirono settimane, addirittur­a mesi per tornare a casa, attraversa­ndo un’europa distrutta. Arrivarono a Genova con gli stessi vestiti con cui erano partiti, gli stessi zoccoli. E poco dopo ripresero a lavorare, in un’italia libera ma già carente in memoria.

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PASSATO BUIO Dall’alto, in senso orario: la copertina del libro Assalto alla fabbrica di Giovanni Mari, il campo di concentram­ento di Mauthausen [Getty], gli operai deportati e i volti di tre di loro
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