JANINE DI GIOVANNI «Ecco perchè a Damasco e a Tripoli la democrazia non può funzionare»
Il terrorismo, le torture, i dittatori che mantengono la pace, le false primavere L’inviata di guerra americana racconta, nel suo libro, l’inferno della Siria
La guerra in Siria è una catastrofe umanitaria. Per la verità era già prevedibile nel 2011, quando cominciarono le proteste di piazza contro Bashar al-Assad, poi sfociate nella guerriglia civile dell' Fsa (Free Syrian Army), l'esercito dei ribelli che affiancò la protesta antigovernativa. A dicembre di quell'anno cinquemila persone erano già state uccise.
Un anno dopo mezzo milione di siriani avevano lasciato il paese. Nel 2013 erano 2,3 milioni. Solo nel 2014 ci sono stati 76mila morti. A oggi le vittime sono un terzo di milione.
Janine di Giovanni, inviata di guerra, pluridecorata per i suoi reportage nelle zone calde (Bosnia, Somalia, Afghanistan, Sierra Leone, Iraq, Cecenia) è stata in Siria nella seconda metà del 2012, e ne ha ricavato un libro straordinario, Il giorno che vennero a prenderci (La nave di Teseo, pp. 274, euro 19, traduzione di Chiara Spaziani). L'ho incontrata qualche giorno fa a Milano, dove era di passaggio, ospite della Milanesiana.
Ormai della Siria nessuno riesce a capire più niente, nel furore delle mille fazioni. Che diavolo sta succedendo?
«La cosa più importante, nella confusione generale, è delineare i due gruppi spalleggiati dalle superpotenze. Da una parte Assad, Iran e Russia, dall'altra Arabia Saudita, Qatar, Iraq e Stati Uniti, e forse un po' di Europa. L'Isis è un'altra cosa ancora, che andrebbe tenuta separata. Non ho cercato di spiegare ogni dettaglio del conflitto militare sul terreno, perché per questo ci sono esperti ovunque, anche su internet. Io racconto della gente comune, e di come la guerra ha inciso sulle loro vite. Ho cercato di isolare un microcosmo della guerra e raccontare la storia attraverso le persone, per non farmi sommergere dai dettagli. Ho fatto parlare cittadini di Homs, di Aleppo, dei campi profughi».
Negli anni Novanta ovunque, nei taxi, nei negozi, in ogni luogo pubblico, c'erano immagini di Assad padre, che era anche un dittatore. Era paura o ammirazione?
«Entrambe le cose. In tutte queste dittature arabe vai e trovi i ritratti di Saddam o Gheddafi o Mubarak, è un grande tradizione araba quella dell'uomo forte. Ma se non avevi Assad al muro eri svantaggiato. Altri ottenevano favori, tu no. Era un sistema non diverso da quello comunista. Assad ha ancora un seguito di persone che credono in lui, che dicono stia combattendo il terrorismo e che l'estremismo sunnita è il vero pericolo per la nazione. E noi sappiamo che davvero l'estremismo sunnita cresce in Medio Oriente, uccide ogni visione unitaria».
I fanatici. Che cos’è successo ai luoghi dell'antichità, come Palmira o Ebla? Sono ancora lì o sono stati distrutti, e da chi?
«So che l'Isis ha distrutto molto, sulla base del disprezzo per l'idolatria. Bisognerà ricostruire, maC non so chi pagherà».
La Primavera Araba. I paesi arabi islamici possono essere democratici, considerando che non lo sono mai stati?
«È un grande dibattito tra gli esperti di scienze politiche. La nostra visione della democrazia, in Italia, Inghilterra, Francia, Usa, non va bene per la Palestina, l'Egitto o la Siria. Forse ci vorrebbe una forma diversa, dove però i princìpi, come i diritti umani, lo stato di diritto e la libertà di espressione appartengano a tutti. E poi, non per prendermela con il colonialismo, ma questi sono stati nuovi».
Ma non stavano meglio sotto il colonialismo? Non si uccidevano fra loro…
«Se travolgi un paese come hanno fatti gli Stati Uniti in Iraq. Poi devi rimanere lì per costruire le istituzioni. In Libia è successo così. Abbiamo eliminato Gheddafi, ma non siamo rimasti lì, e loro, che hanno vissuto per anni sotto un dittatore, non hanno idea di che cosa sia una stampa libera, o come gestire i diritti umani o uno stato di diritto. Non hanno un' idea di governance».
Lei fa parlare soprattutto le vittime di guerra, vittime di torture, di stupri, di saccheggi. Ma dopo un po' si sente una ripetitività in tutte le storie, pur nella loro assurda ferocia. Si può mai fare l'abitudine a qualcosa del genere?
«Non lo so, è una cosa personale e ogni individuo trova un modo per adattarcisi. Ho intervistato molte donne siriane rifugiate in Iraq, Giordania, Libano, Egitto. Centinaia. Ma alcune donne non solo non parlavano, ma non uscivano neanche dalla tenda. Altre invece avevano usato le esperienze di guerra in positivo, se n'eranoapprofittate per lasciarsi dietro mariti sessisti e violenti».
Come fa a sapere che tutte le storie sono vere e non gonfiate o inventate?
«Verifico. Per esempio, io so che ognuno ha le sue tecniche di tortura: gli israeliani, gli iracheni, i siriani. Parlo più volte con la stessa persona, e sto attenta ai dettagli. Se la testimonianza cambia da una volta all'altra, la metto in dubbio. Certo, si può sempre essere ingannati. In Iraq, ai tempi di Saddam, ero molto amica di un professore, un oppositore politico. E invece era del Mukhabarat, dei servizi segreti, e mi aveva tradito tutto il tempo».