Le piccole imprese pagano più tasse di quelle grandi
Nel 2017 le Pmi hanno versato al fisco il 53% dei tributi per 43,9 miliardi di euro. Tutte le altre “solo” 39,6 miliardi
Più sono piccole (le imprese) e più tasse pagano. Che il nostro sistema imprenditoriale soffrisse di un sottodimensionamento è cosa nota da tempo. Tanto più che la crisi degli ultimi anni ne ha spazzate via tante. Una selezione naturale, sicuramente, complicata dal vero e proprio salto ad ostacoli che le Pmi italiane devono affrontare. Non solo per le dure leggi di mercato ma anche per un sistema iper-burocratico, pagamenti in ritardo cronico e un differenziale di costi - con il resto d’Europa - non indifferente.
Ieri l’ennesima conferma: non solo rispetto ai partner europei siamo messi male ma le nostre imprese devono fare i conti con un vero e proprio paradosso fiscale divenuto evidentemente insostenibile. Uno studio realizzato dall’Ufficio studi della Cgia di Mestre cristallizza il controsenso: le nostre Pmi pagano complessivamente più tasse e imposte di tutte le grandi aziende italiane messe insieme. Tanto più che il 98% delle imprese in Italia ha meno di 20 addetti.
Lontani i tempi di “piccolo è bello”, ormai appare evidente la continua “spremitura” fiscale e la mancanza di sostegno a chi realmente crea posti di lavoro. Il « contributo fiscale ed economico reso al Paese è rilevantissimo», fa di conto l’Ufficio studi mestrino, che evidenzia questa disparità. Tra imposte, bolli e tasse gli oltre 5 milioni di lavoratori autonomi, piccole e piccolissime imprese, nel 2017 hanno contribuito al gettito erariale per ben 43,9 miliardi di euro (il 53% del totale delle imposte in capo al sistema economico). Mentre tutte le altre medie e grandi imprese hanno invece corrisposto solo 39,6 miliardi (47%).
L’altro paradosso è che proprio tra botteghe, piccole aziende e studi professionali trovano lavoro e reddito la maggior parte dei lavoratori del sistema economico nazionale. Le aziende con meno di 20 addetti danno lavoro al 56,4%, e contribuiscono a realizzare il 40% della ricchezza nazionale. In nessun altro Paese europeo il rapporto tra dimensioni, occupati e contributo al Pil è tanto evidente.
Purtroppo, nonostante gli sforzi compiuti per restare attivi e competitivi in un mercato globale sempre più aspro, l’Italia sconta un altro differenziale negativo. Unimpresa si è presa la briga di calcolare il rapporto tra la crescita del Pil da noi e quella stimata negli altri Stati europei. E pure in questo caso ne usciamo male: a fine 2018 la nostra crescita sarà di 11,3 punti in meno rispetto alla media dell’area euro. Colpa del rallentamento economico globale? In parte, ma non solo. In Italia gli investimenti pubblici sono fermi al palo nonostante una massa di fondi europei (e nazionali) teoricamente disponibili ma non spesi. Il Pil nell’eurozona è tornato vicino ai livelli del 2007 (96 punti su 100), ma in Italia siamo retrocessi del 20% (79 punti su 100).
AN. C.