Il re della casta se la prende con la Lega
Collezionava incarichi grazie a Rutelli e Jervolino. Però oggi accusa il Carroccio: «Si incolla alle poltrone»
C’è un signore che è fra i simboli viventi e più illuminanti di cosa sia la casta in Italia e che ieri ha accusato su Repubblica la Lega di Matteo Salvini di essere una casta addirittura «intoccabile», determinata per questo a difendere una poltrona da sottosegretario come quella di Armando Siri.
Stessa poltrona per altro su cui è seduto quello stesso signore, che si chiama Vincenzo Spadafora e fa il sottosegretario alla presidenza del Consiglio perché così ha imposto l’ennesimo carro a cui nella sua vita era riuscito ad agganciarsi: quello di Luigi Di Maio e del Movimento 5 stelle. Spadafora, che in una delle poche interviste “personali” raccontò l’errore della sua vita («Non essermi laureato») nonostante la mancanza di titoli è riuscito a inanellare un incarico di vertice dietro l’altro: prima uomo ombra di una serie infinita di uomini politici e potenti dirigenti pubblici, poi alla guida di Unicef Italia, presidente delle Terme di Agnano, Garante per l’infanzia. Incarichi importanti, che marciavano paralleli però con la lunga e ondivaga gavetta politica. Prima con il leader dei Verdi Alfonso Pecoraro Scanio. Poi diventando l’ombra di un ex dc, Andrea Losco, che divenne presidente della Regione Campania e se lo portò dietro come segretario particolare. Losco passò all’Udeur, poi da lì alla Margherita e con quella finì nel Pd. Con Spadafora sempre appresso.
Fu proprio Losco a presentarlo al politico con cui avrebbe fatto il grande salto nella Roma che conta, proiettato a diventare uno dei più solidi esempi della casta dei palazzi della Capitale: Francesco Rutelli. L’ex sindaco di Roma diede a Spadafora le chiavi della organizzazione giovanile della Margherita, chiedendogli pure un progetto per rilanciarla. Tempo pochi mesi e quelle chiavi gli furono tolte di mano, perché l’esperienza fu giudicata disastrosa da chi lo aveva mandato a farla. Il diretto interessato naturalmente la raccontò in altro modo: «Scrivemmo un progetto ambizioso, più attento alle idee che alle tessere. Fu un flop». Rutelli comprese che le capacità del giovane Spadafora non erano politiche, ma relazionali. E così quando divenne ministro dei Beni culturali lo scelse come uomo-ombra e se lo portò dietro a fare il segretario. Nel giro di pochi mesi Spadafora, che in quello è assai sveglio, divenne amico di tutti quelli che contavano all’epoca: da Mauro Masi, che poi sarebbe diventato dg della Rai, al più potente grand commis dell’epoca: Angelo Balducci, che guidava il consiglio superiore dei lavori pubblici e poi avrebbe avuto insieme a Guido Bertolaso importanti ruoli nelle strutture di missione della presidenza del Consiglio dei ministri.
Di quel periodo c’è stata ampia traccia nelle relazioni di polizia giudiziaria e nelle intercettazioni telefoniche fatte dai Ros dei carabinieri nell’ambito della inchiesta sulla cosiddetta cricca degli appalti pubblici e sui lavori del G7 alla Maddalena. Scrivevano i carabinieri: «Nel corso dell’attività di indagine sono già emerse numerose conversazioni telefoniche fra Spadafora Vincenzo e Balducci Angelo, sintomatiche di un loro rapporto di amicizia; l’incontro fissato fra i due per la mattina del 13 ottobre, precede di qualche giorno, secondo quanto emerso dal contenuto di alcune conversazioni, la firma da parte di Balducci Filippo di un contratto di assunzione presso l’Unicef di cui, come già accennato, Spadafora è presidente».
Quel rapporto intenso fra Balducci e Spadafora ebbe un certo eco sulla stampa, ma fu giudicato penalmente irrilevante anche perché non esisteva ancora il reato di traffico di influenze.
Il futuro moralista-censore della Lega spiegò così quella intercettazione: «Conosco Balducci e conosco suo figlio, che mi ha chiesto di fare un’esperienza all’Unicef. Io gli ho procurato un colloquio. Questo è tutto. Non ho mai voluto parlare di questa storia perché non c’entro niente con l’inchiesta di Perugia, gli appalti, i soldi, le case e, soprattutto, perché mi fa male se l’Unicef viene in qualche modo danneggiata (...) non è corretto dire che io ho fatto assumere Filippo Balducci. Il padre mi ha detto che lui voleva fare un’esperienza con noi e l’ho presentato all’ufficio provinciale di Roma, che si occupa di organizzare eventi locali. Filippo lavora anche per l’Auditorium di Roma e chi ha valutato il suo curriculum ha tenuto presente anche questo. È stato assunto sì, ma come tutti quelli che hanno dei titoli e ci chiedono di fare un’esperienza. Parliamo di un contratto part time di 18 mesi e Filippo, 3 settimane dopo l’arresto del padre ci ha inviato una bellissima lettera e si è dimesso. Solo oggi 3 ragazzi mi hanno fatto la stessa richiesta. Io li ho indirizzati agli uffici competenti». Proprio al momento della formazione del governo gialloverde saltarono fuori altri sms legati a quella vicenda, e scoprimmo così che Spadafora chiamava scherzosamente Balducci «Papi», e che si definiva un «balduccino». Ma scoppiata l’inchiesta ovviamente questo sistema di rapporti rischiava solo di danneggiarlo e non era di aiuto. Gli diede una mano l’allora sindaco di Napoli, Rosa Russo Jervolino, che indicò Spadafora alla guida delle Terme di Agnano, che erano controllate al 100% dal Comune. Ci stette poco meno di 2 anni, in cui le Terme chiusero i bilanci peggiori della loro storia, tanto è che poi dovettero finire in liquidazione.
La vocazione di Spadafora evidentemente non era quella di fare il manager pubblico. Ma intanto era passato un altro treno importante, quello di Mara Carfagna, che era ministro delle Pari opportunità. Non si è mai capito come, ma scoccò la scintilla magica, e la Carfagna disegnò per lui il ruolo di Garante della Infanzia, poltrona su cui Spadafora molto volentieri saltò. Senza mai dimenticarsi di tenersi a portata di mano altri binari utili. Così nelle varie interviste non mancò di disseminare qualche elogio utile: «Ho molto apprezzato il tentativo di Montezemolo di creare con Italia Futura un pensatoio di nuove idee». E per tempo coltivò buoni rapporti con Enrico Letta, futuro premier: «Lo stimo. La prossima estate sarò ospite del suo think net VeDrò». Ma non ci fu bisogno di salire anche su quel vagone. Perché zitto zitto ne vide per tempo un altro che stava passando: quello di Luigi Di Maio, appena divenuto vicepresidente della Camera, che lo volle con sé come assistente per i rapporti internazionali.