LA SIGNORA DEI RISVEGLI
La dottoressa che segue i pazienti dal coma al recupero di coscienza «Il primo segno? Può essere la reazione a un dolore, o un sorriso»
■ «Prima cosa: evitiamo di tirare in ballo miracoli e cose del genere, per favore». Ed ecco, maledizione, che il titolo a effetto è già escluso. Riportare alla vita, perché di questo si tratta, persone la cui coscienza pareva ormai irrimediabilmente perduta. Una rinascita. Anzi meglio: un risveglio. Ma non si parli di prodigio, alzati e cammina e cose del genere, «il nostro è un lavoro lungo e complesso». E ascoltando parlare la dottoressa Caterina Pistarini, responsabile per gli Istituti Clinici Scientifici (Ics) Maugeri di quelle che si chiamano per l’appunto “Unità di risveglio”, viene in mente un archeologo che scava fin nelle viscere del terreno e del tempo per riportare alla luce un tesoro inestimabile – sai che è lì sotto anche se non lo vedi, e studi analizzi calcoli verifichi, poi ecco che emerge un frammento ma attenzione, è fragile e può rompersi, dunque si resiste all’impulso di afferrarlo e tirarlo fuori con impeto, invece si lavora delicatamente intorno, con pazienza, fino a quando pare libero e può esser preso - sempre piano, con cautela massima – e portato in un luogo sicuro, dove poi comincia l’altro lungo lavoro di recupero. «Sì. Oppure come vedere una pianta che non dà segni di vita e però innaffiandola si riattiva. Un’emozione incredibile, e anche un’enorme soddisfazione professionale. Dà senso a quel che facciamo».
Come detto, la dottoressa Pistarini sovrintende le “Unità di risveglio” allestite negli Ics Maugeri, «a Pavia abbiamo una realtà molto strutturata, e poi a Bari, a Sciacca in Sicilia, a Telese in Campania, un po’ in tutta Italia dunque, perché per pazienti di questo genere spostarsi lontano dalla propria regione è un grosso problema». Dunque, aree in cui questi vengono assistiti e accompagnati fino a riprendere coscienza, naturalmente dov’è possibile. Generalizzare non è possibile, ognuno ha la sua storia. E pure gli stati d’incoscienza non sono tutti uguali.
«Il coma - ci spiega la dottoressa - è uno stato immediato che sopravviene dopo una lesione cerebrale. Non c’è presa di contatto con l’ambiente, il paziente è mantenuto in vita grazie ad atti di supporto esterno».
Poi c’è lo stato vegetativo, «quello in cui passano i pazienti che sopravvivono: il soggetto torna a manifestare autonomamente funzioni quali respirazione e battito cardiaco. Può anche mostrare una parvenza di vigilanza, magari seguire con gli occhi un oggetto in movimento, ma questo non significa aver sviluppato una capacità di coscienza, non si tratta di risposte coordinate e intenzionali. E’ un flusso per l’appunto vegetativo».
In seguito, prosegue la dottoressa, «può accadere che il paziente inizi a rispondere saltuariamente a stimoli molto semplici, magari senza avere consapevolezza di quel che accade. Ma è comunque un segno di progresso. Si chiama stato di minima coscienza».
Ecco, subito una domanda da profano: ma durante quegli stati, è sicuro che i pazienti non percepiscano nulla?
«Sono stati effettuati molti studi per cercare di stabilire il grado di percezione delle persone che si trovano in stato vegetativo. Per esempio, è stato visto che, dopo uno stimolo doloroso, qualche area cerebrale si accende, ma subito dopo si spegne, senza innescare connessioni con le altre aree. Come una lampadina.
Dunque non si può parlare di livello di coscienza, che presuppone una risposta intenzionale e in qualche modo indirizzata».
Ma a volte aprono gli occhi, quasi che cercassero qualcuno o qualcosa.
«Aprire gli occhi non significa necessariamente avere un contatto con l’ambiente esterno. Può essere una risposta fisiologica di base, un impulso senza coscienza».
Va bene, partiamo allora da principio. Come inizia il vostro rapporto con un paziente di questo genere?
«Comincia ovviamente con la valutazione della lesione cerebrale. E soprattutto con le eventuali complicanze che da questa lesione possono derivare. C’è la necessità di portare il paziente a una situazione di stabilizzazione clinica: è questo il principale aspetto che si cura da principio».
Una volta stabilizzato, si inizia il lungo lavoro di “ricerca della sua coscienza”.
«Bé, si può dir così. Il percorso riabilitativo mira innanzitutto a stimolare il paziente in modo che possa riprendere contatto con l’ambiente che lo circonda. In questo senso, la tecnologia e le conoscenze scientifiche hanno permesso una sviluppo sostanziale. Stimolazioni dunque non solo per quanto riguarda i sensi di base (gusto, olfatto, tatto, stimolazioni termiche), ma anche esplorazione indotta attraverso il mutamento delle posizioni, oppure il movimento degli arti».
Cioè lo spostate, lo alzate, lo girate, anche se lui non ne è cosciente.
«Sì. Il ritorno alla coscienza non è improvviso, dimenticate Lazzaro che di colpo si alza e inizia a camminare. È un lavoro lungo, impegnativo, fatto di osservazioni e valutazioni costanti, quotidiane».
Immagino che tipo di rapporto - come dire - quasi extrasensoriale si possa creare fra il medico e la persona in cura (il giornalista va in cerca di immagini a effetto, ma viene subito riportato sulla Terra…).
«No guardi, nulla di sovrannaturale. E poi non è un solo medico che si occupa di un solo paziente, si lavora in équipe: neurologo, fisioterapisti, logopedisti per la deglutizione autonoma, infermieri. Tante competenze che lavorano insieme per arrivare a un obiettivo comune. E il percorso non è quasi mai costante. Anzi, può essere accidentato, caratterizzato da passi avanti e passi indietro. I tempi di recupero non sono schematizzabili, e a volte si possono anche arrestare, nel senso che ci si rende conto che il paziente non può andare oltre».
E dunque, quali sono le modalità di lavoro?
«Si lavora molto spesso con riunioni periodiche, d’équipe per l’appunto, in cui ci si confronta sullo stato delle cose e si fissano i passi successivi. Si cerca anche di capire che cosa facesse la persona prima, la sua vita professionale e sociale».
Un percorso lungo.
«Sì, lungo e profondo. Guardi, per fare un lavoro di questo genere ci vuole necessariamente una forte motivazione, conoscenze profonde. Si vive di fatto assieme a una persona che non è cosciente, non può manifestare desideri e bisogni, e però bisogna essere in grado di capire l’andamento della situazione, di saper intervenire quando è necessario. La degenza può durare mesi, addirittura anni, e anche quando tornano a casa il rapporto non s’interrompe. Soprattutto con i familiari, i quali si trovano davanti a una situazione nuova, a una persona che non è più come prima»
Ma quando ci si accorge che il paziente si sta - come dire - risvegliando?
«Sono momento particolari, emozionanti. Per esempio, l’accelerazione del battito può essere un segno iniziale. A volte sono episodi improvvisi, gli stessi familiari che avvertono qualcosa, un movimento o un impulso che pare diverso da quelli avvertiti fino a quel momento. Come detto, dar segni di percepire il dolore è un altro segnale, magari durante la pulizia quotidiana oppure mentre il paziente viene sistemato nel letto. E poi un sorriso, oppure una lacrima: la risposta emozionale è molto importante, poiché dà la misura di quanto il soggetto sia in grado di comprendere quel che gli accade intorno».
E la cosa viene studiata, valutata.
«Subito l’équipe verifica se si sia effettivamente di fronte a risposte a stimoli. Se queste reazioni siano costanti e intenzionali, per esempio l’apertura degli occhi, oppure mostrare un’affermazione o una negazione, il sì e il no, o ancora il tentativo di afferrare qualcosa. Tutti segni del fatto che la coscienza sta riaffiorando. Poi, naturalmente, si inizia a lavorare con le tecniche di riabilitazione fisica e psicologica, trattamenti motori a letto, stimolazioni dell’attenzione e della memoria. Un passo dopo l’altro».
Ma come vive il paziente il risveglio? Il ritrovarsi in una situazione di cui non aveva contezza?
«Ecco, nei soggetti la cui coscienza comincia a riemergere, l’agitazione è un sintomo frequente. Comprensibile, visto che il più delle volte non sanno dove sono e che cosa gli succede intorno. Possono essere nervosi, a volte addirittura irritati. Ma anche queste sono reazioni all’ambiente, e dunque positive».
E si prosegue con gli stimoli. «Certo. Si mostrano le immagini dei figli per innescare per l’appunto reazioni di tipo vegetativo, come per l’appunto l’accelerazione del battito oppure la sudorazione. La coscienza è qualcosa di complesso, di strutturato. Bisogna vedere una certa costanza in queste reazioni, per poter parlare di coscienza».
Ma in seguito non ricordano nulla di quel buio in cui sono sprofondati per così tanto tempo?
«No, non si può dire che ricordino qualcosa del periodo in cui sono stati in coma oppure in stato vegetativo. Qualcuno può forse rielaborare a suo modo il percorso fatto, ma è tutto un altro discorso. Come neonati impegnati a costruire e a comprendere il mondo che li circonda. Ecco, sì, in questo senso si può parlare di rinascita. Ma non lo si chiami miracolo».