Giro d’italia
INTORNO ALLA METÀ DEGLI ANNI 50, IL PAESAGGISTA INGLESE ARRIVÒ A TORINO PER DISEGNARE IL SUO PRIMO GIARDINO. FINÌ COL CAMBIARE IL NOSTRO PATRIMONIO VERDE CREANDO ALCUNI DEI SUOI CAPOLAVORI. TUTTI DA RISCOPRIRE
Qui da noi era l’Inglese. Impossibile ricordare il suo nome, mentre impressionavano il viso, la dizione e il tempismo da attore edoardiano. Originario del Lincolnshire, Russell Page (1906-85) è stato uno dei più grandi architetti paesaggisti del ’900, un talento del verde che ha disegnato più giardini di chiunque altro nella storia: oltre 500 in giro per il mondo, di scala e tipologia diverse. Ventinove in Italia, sparsi dal Nord al Sud, anche se quelli conservati sono circa una decina. «Amava il nostro Paese in modo quasi commovente», racconta Paolo Pejrone, che di Page è stato allievo e ammiratore. «Arrivò subito dopo la fine della Seconda guerra mondiale, quando i parchi, impoveriti e trascurati, erano diventati orti o prati a fieno, e avere un angolo fiorito era uno status symbol». Eppure nella Penisola realizzò alcuni dei progetti più interessanti. Tra questi, San Liberato – il suo preferito – è un patchwork paesaggistico di aceri canadesi e ciliegi giapponesi sulle sponde del lago di Bracciano, dietro il muro della tenuta dei conti Sanminiatelli che lo chiamarono nel 1964. Qualche anno prima, sulle colline torinesi, aveva realizzato il suo capolavoro formale, oltre che opera di rara modernità. «A Moncalieri, Page ha giocato la carta del giardino all’italiana con un’aria del tutto speciale», continua Pejrone.
«ALTISSIMO, SEVERO, CON LA SIGARETTA SEMPRE ACCESA, ADORAVA LE ESSENZE MEDITERRANEE: MIRTI, CORBEZZOLI, AGRUMI»
Paolo Pejrone
Una successione di terrazze, scalinate e vasche d’acqua circondate da parterre geometrici e sentieri in ghiaia. Nessun altro disegno realizzato da Page in Europa illustra meglio l’armonia tra il naturale e l’artificiale. Pensare che lui un giardino non l’ha mai neppure avuto, fatta eccezione per quella fettuccia di violette nella sua casa londinese. «Mi sono però dato una o due semplici regole», scrive nelle pagine di L’educazione di un giardiniere, il suo più grande lascito. La prima: «Cerco di mettermi al posto dei clienti e immaginare di dover passare il resto della mia vita nel parco che sto progettando». LadyWalton, moglie del compositore inglese William, di questo gliene fu per sempre grata, visto che fu grazie a lui se l’habitat roccioso di La Mortella, a Ischia, è diventato quell’oasi lussureggiante che oggi è. Arbusti di camelie, prati di agapanti, felci e alberi di tulipani ombreggiano la piccola valle
affacciata sul golfo, suggerendo l’idea di una semplice inevitabilità. «Quando è impossibile immaginare qualsiasi altro giardino in una determinata ambientazione, l’obiettivo è raggiunto», diceva Page. E se l’impianto della Landriana, vicino a Roma, è suddiviso in ‘stanze’ con specie botaniche del Mediterraneo, il terroir di Villa Brandolini d’Adda a Sacile è un romantico rincorrersi di prati e boschetti di bambù. «Difficilmente catalogabili, i suoi lavori sono tra loro molto diversi», puntualizza Pejrone. «Sempre vari e originali, cambiano con il contesto, il clima, l’architettura della casa, perfino il tipo di terra. La sua originalità è stata l’unicità del fatto». Un leitmotiv però c’è, e va cercato nelle proporzioni: ferme, precise, quasi sempre divisibili per tre; e nell’acqua, la sua ossessione. Se non c’era, la portava, creando rivoli, ruscelli, piccole piscine o ‘collane’ di laghi. A Villar Perosa, nella residenza estiva degli Agnelli, sono addirittura undici. «Page era così, in giardino non aveva paura di niente e di nessuno, la progettazione era il suo campo di battaglia quotidiano». Rigoroso, silenzioso, con le gambe lunghe e la lingua tagliente, spesso assorto a scrutare l’orizzonte, la sigaretta sempre in bocca, sosteneva che lo scopo di un giardiniere fosse «quello di invogliare a credere nel paradiso». In Italia ci è riuscito.
«SEMPRE VARI E ORIGINALI, I SUOI PROGETTI CAMBIANO CON IL CONTESTO, IL CLIMA, L’ARCHITETTURA DELLA CASA, PERFINO IL TIPO DI TERRA»
Paolo Pejrone