L’ULTIMA UTOPIA
FRANK LLOYD WRIGHT, LE ARCHITETTURE DI KENZO TANGE E LE AVANGUARDIE GIAPPONESI DEGLI ANNI 60. DOPO GRAND BUDAPEST HOTEL IL REGISTA TEXANO TORNA NELLE SALE CON LE AMBIENTAZIONI RÉTRO-FUTURISTE DI L’ISOLA DEI CANI
Un team di 670 persone, 144mila fotogrammi, più di mille burattini, tra uomini e cani. Appena uscito, L’isola dei cani, il nuovo film di Wes Anderson, è già un record. La seconda pellicola in stop motion dopo Fantastic Mr. Fox si candida a essere il progetto più ambizioso del regista americano, che somma a questi numeri anche 240 set architettonici (con una quantità di dettagli sconcertante), tutti costruiti a mano in tre formati. Il più grande di nove metri, il più piccolo delle dimensioni di un iPhone. La maggior parte inquadrati per non più di due secondi e poi archiviati. A realizzarli Paul Harrod, scenografo con curriculum ultratrentennale, che ammette: «Niente prepara davvero all’esperienza di lavorare conWes Anderson». Infatti, la frase che si è sentito ripetere più spesso durante le riprese è stata: «Mi chiedo se possiamo farlo in un altro modo». «Ci ha sempre sfidato a pensare diversamente per dare corpo a una visione favolistica senza compromessi». Questa: un ragazzo di 12 anni, Atari Kobayashi, dirotta eroicamente un piccolo aeroplano su Trash Island per cercare
il suo cane, dopo che un’ordinanza del corrotto sindaco di Megasaki ha messo al bando tutte le razze canine dalla città. Sull’isola-discarica, Atari, con l’aiuto di un branco di amici, inizia un viaggio epico che decide il destino dell’intera prefettura. Siamo nell’arcipelago giapponese, nel futuro tra vent’anni. Ma si tratta di un futuro distopico, perché il punto di partenza non è il 2018 ma il 1963, quando Akira Kurosawa dirigeva Anatomia di un rapimento, film drammatico ambientato nel Giappone contemporaneo, e Tokyo sognava con i neon e le pubblicità. Per rappresentare quell’utopico ‘domani’ la troupe ha attinto a piene mani dalle architetture di Kenzo Tange (che in Italia ha disegnato tra l’altro le torri della fiera di Bologna e il Quartiere Affari di San Donato Milanese) e dal movimento Metabolista, senza però scadere nei cliché. «Abbiamo cercato di rimanere fedeli a quella che negli anni Sessanta avrebbe potuto essere una città futurista credibile», continua Harrod. «I Metabolisti erano quanto di più all’avanguardia potesse esserci, con i loro edifici rettangolari e cilindrici concepiti come
organismi biologici in continua crescita, e con le loro mini capsule abitative simili a delle automobili. Era chiaro, però, che non volevamo neppure un’ambientazione troppo avveniristica come la città de I pronipoti. Megasaki, al contrario, doveva essere un po’ vecchia e un po’ nuova, tradizionale e al tempo stesso modernista». L’Imperial Hotel di Tokyo costruito da Frank LloydWright nel 1923, e ora demolito, ha infatti ispirato la residenza laccata di rosso del sindaco, con uno sviluppo allungato e meno orizzontale, così da renderlo più minaccioso. È
«C’è QUALCOSA DI SUBLIME NEL MODO IN CUI WES ANDERSON DÀ UN ORDINE VISIVO ALLE SITUAZIONI PIÙ CAOTICHE»
Paul Harrod
quello che il New York Times chiama ‘Anatomia di una scena’, la frenesia tipicamente wesandersiana di prendere le situazioni più caotiche e confuse e dargli un ordine visivo molto musicale. «Come una suite di Sergej Prokofiev», conferma Harrod. Un marchio di fabbrica il suo, tanto inconfondibile quanto imitabile. Su Accidentally Wes Anderson, il sito che più di tutti sta documentando la verve estetica del regista, è già comparso il primo aeroplanino.
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