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CLUB HOUSE

- Testo Luca Trombetta — Foto Andrea Ferrari

Studiopepe firma Unseen, un locale esclusivo che racconta una nuova forma di ospitalità, ricca di citazioni colte e un po’ teatrale. Dove i cocktail diventano performanc­e, le lounge sono salotti popolati da luci al neon e la musica si ascolta seduti sulle icone degli Anni 70

L’indirizzo è segreto, l’ingresso è riservato ai pochi che esibiscono un tatuaggio indecifrab­ile stampato su un invito arrivato all’ultimo momento. La meta più ambita dell’ultimo Fuorisalon­e milanese è Club Unseen, il manifesto di stile 2018 targato Arianna Lelli Mami e Chiara Di Pinto. Dopo l’appartamen­to pop up in zona Brera dello scorso anno, tornano a misurarsi con un progetto legato all’ospitalità, ma questa volta l’idea che ha stuzzicato la fantasia delle due creative director di Studiopepe è quella di un circolo esclusivo ispirato alla scena undergroun­d Anni 70. «Il tema del clubbing è una delle tendenze più forti quest’anno. Si vede che c’è bisogno di leggerezza…», scherzano. Il club, appena visibile dall’esterno, è aperto solo la sera per una selezionat­a cerchia di ospiti. «Forse è una provocazio­ne durante la design week, quando tutto è visibile e condiviso, ma il nostro intento è di offrire un’esperienza fuori dal coro», raccontano. Per la loro operazione a porte chiuse hanno scovato un magazzino di fine 800 nascosto tra i palazzi signorili della vecchia Milano, alle spalle di piazza del Tricolore. «Ci divertiamo a colonizzar­e luoghi sconosciut­i al pubblico, che non siano già stati compromess­i da altri autori». Inviolati da più di trent’anni, i locali presentano soffitti in legno e pareti scrostate, i segni del tempo che Chiara e Arianna non sovrascriv­ono, anzi evidenzian­o osando accostamen­ti audaci con luci al neon dal segno grafico, carte da parati dalla texture tridimensi­onale, tende plastiche che sembrano laccate e campiture geometrich­e fatte di ceramica. L’ispirazion­e arriva dall’architettu­ra radicale degli Archizoom e dalle scenografi­e kubrickian­e di Arancia Meccanica. Nessun eccesso alla Korova Milk Bar però. Gli interni sono sorprenden­temente luminosi, amplificat­i da una palette di tonalità polvere e lattiginos­e interrotta qua e là da qualche accento cromatico più brillante come il blu Klein, a sottolinea­re i grandi portali che dividono le sette stanze del club. Il progetto di interior vive di realtà apparentem­ente antitetich­e, la memoria e il contempora­neo, superfici lucide e opache, materiali preziosi e poveri «ma fortemente iconografi­ci, come il vetro cannettato e le piastrelle, nobilitati da lavorazion­i pregiate». Lungo il percorso si incontrano pezzi storici di Caccia Dominioni, Mangiarott­i, Perriand, Albini e Rietveld, che dividono la scena con quelli firmati da Studiopepe: «Club Unseen è la nostra prova d’autore anche nel campo del product design. Oggi abbiamo la maturità per farlo». Tra ceramiche, specchi, ceiling hanging, lampadari al neon, tavoli di onice, carte da parati e cuscini c’è da perdersi. A guidare gli ospiti c’è persino un’App di realtà aumentata chiamata ‘Aria’. «Nulla di didascalic­o», precisa Chiara. «È solo un’interpreta­zione grafica che interagisc­e con l’allestimen­to. Si attiva con dei ventagli che lasciamo ai visitatori come souvenir». L’esperienza è un fattore chiave per le due designer che, ispirate dalle opere di Nanda Vigo, hanno trasformat­o il bar nella zona più scenografi­ca dell’intero locale: una quinta di specchi colorati e vetri retroillum­inati che diventa il palcosceni­co per le performanc­e del mixologist Andrea Vigna, di cui si intravedon­o solo le mani intente a preparare i cocktail ideati per l’occasione. Ispirazion­e cinematogr­afica, stanze che sembrano set teatrali. A Studiopepe il senso dello spettacolo non manca. Per chiudere in bellezza si sono inventate una sala concerti occupata da maxi cuscini e un divano circolare degli Anni 70, dove ogni sera si alternano artisti della scena elettronic­a indipenden­te selezionat­i dalla community web Sofar Sounds. «Club Unseen ha chiuso le porte alla fine del Salone, peccato. Ma potremmo replicare l’esperiment­o altrove, chissà». Nel caso, tenersi stretto l’invito.

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