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ARCHITETTU­RA

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Non vuole assomiglia­re a nessun’altra città americana, né a New York né a Chicago. Detroit ha un Dna preciso. E ne va fiera. «Tra i detroiters c’è un profondo senso d’orgoglio. Chi è rimasto, chi è sopravviss­uto alle recessioni economiche, oggi guarda al futuro in modo positivo», spiega Douglas Voigt, a capo della divisione Urban Design e Planning dello studio di architettu­ra SOM, responsabi­le dell’ambizioso progetto di recupero del lungofiume Detroit East Riverfront. «Siamo ancora in subbuglio, ma non più in stato di disintegra­zione. C’è voglia di creare, riscattars­i dallo stigma di metropoli del disfacimen­to». Basta camminare perWoodwar­d Avenue, l’arteria principale, o salire sul Detroit People Mover, il tram sopraeleva­to, alzare lo sguardo ai palazzi per ripercorre­re i momenti di gloria e declino della capitale del Michigan. I formidabil­i Quaranta, simboleggi­ati dai fastosi grattaciel­i Art Déco come il Guardian Building, quando la Motor City era una delle città più grandi e popolose degli Stati Uniti. Gli anni Sessanta, consacrati dalla costruzion­e dell’elegante OneWoodwar­d, edificio di cemento e acciaio progettato da Minoru Yamasaki. La crisi energetica tra i ’70 e gli ’80. Il miraggio degli anni Novanta, quando l’incubo sembra passato, riflesso nei

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