Attori veri
I GRANDI DEL CINEMA
Francesca De Sapio: cosa ho imparato da Al Pacino e dagli altri dell’Actors Studio
Ogni Riccardo III vuole la sua Lady Anna Lancaster. Questa volta siamo a New York, sulla 46esima strada all’altezza dell’Ottava: è la fine del 1969, l’Actors Studio sta provando il dramma in uno di quei loft malandati e pieni di fascino. Lady Anna è una straniera, la ventiquattrenne italiana Francesca De Sapio, appena ammessa alla leggendaria scuola di recitazione. Non sa chi sia quell’attore scelto per il ruolo principale e che, insieme al cast, lei sta aspettando, mentre pensa a come cavarsela in uno dei ruoli più difficili del teatro, sul filo tra rancore e amore. Riccardo arriva. «La camminata curva e ondeggiante... occhi bizantini... Il mio primo pensiero è: però è simpatico, meno male. Ci presentano. “Al”, dice lui...». È Al Pacino, e la descrizione è tratta dall’autobiografia di Francesca De Sapio Per ogni persona incontrata. Le prove vanno avanti, lui la invita a bere vino rosso, camminano notti per le strade di Manhattan, il tempo si dilata, scoprono di avere entrambi origini siciliane. Al bar con degli amici «lui quasi si appoggia alla mia schiena, mi dà un soffio leggero sul collo» e anche se è già fidanzato con l’attrice Jill Clayburgh, Al esclama: «Questa è la mia ragazza». Da qui, un amore di dodici anni. Una relazione come tante di Hollywood - prendi, lascia, paura di legarsi, altri partner e la frenesia del ricongiungimento - e diversa da quelle di Hollywood: silenziosa, tenera e resistente al tempo. Trascorsi quasi cinquant’anni, poco dopo aver parlato con me, Francesca De Sapio raggiungerà per l’ennesima volta New York e l’amico Al. La storia d’amore col grande attore, proprio quando diventava Serpico, Michael Corleone nel Padrino, Sonny di Quel pomeriggio di un giorno da cani, è solo il capitolo più romantico e sexy di un’autobiografia sterminata e rabbiosamente schietta. In quasi ottocento pagine c’è l’arte e il
prezzo di sopravvivere a un’infanzia breve e dura, a una madre violenta e intelligentissima, a un padre amato, abbandonico o dagli «impulsi incestuosi», ai continui smottamenti famigliari, al precoce pendolarismo tra Roma, il Texas, Caracas (dove il padre architetto costruisce palazzi) e New York. E film, dal Padrino II a Ciao maschio e Chiedo asilo di Ferreri, parti in tv e a teatro (è Anja nel Giardino
dei ciliegi diretto da Arthur Penn, poi insegnerà a recitarla): una donna minuta e sola in mezzo a giganti. Una sopravvissuta che ha portato in salvo - a 72 anni può scriverlo - due cose importanti per noi. La memoria di un’infinità d’incontri ravvicinati con i protagonisti più puri e autentici - De Niro, Harvey Keitel, Mastroianni, Benigni e Gassman, Sophia Loren e Meryl Streep, Marco Ferreri e Shelley Winters, Elia Kazan, Anna e Lee Strasberg - dell’altrimenti disfunzionale, spesso tossica famiglia che è il mondo dello spettacolo. E un’idea sulla recitazione semplice e utile per proteggersi la vita, non solo sul set: è uno strumento per raccontare l’uomo. Non si parla d’altro - nel libro e attorno a noi - che di relazioni. E del motore sotteso, la seduzione. Valeva nei dorati e sfrontati (bene) anni SessantaSettanta come vale ai tempi sfrontati (male) di Weinstein e Kevin Spacey (più il primo). Un punto di vista, ricreato intrecciando intervista e autobiografia. IL TEATRO PER NON SOFFRIRE PIÙ. «Mia madre a ogni rumore perdeva il controllo, mi sbatteva la testa sul pavimento, mi strappava i capelli, poi correva a prendere un battipanni e mi picchiava... Per fortuna picchiava solo me, Elisabetta guardava atterrita»; parla della sorellina. I ricordi grigi di un’infanzia romana sono rimasti sepolti per decenni, e poi, quando sono riaffiorati, «se studi tantissimo il teatro e i personaggi, allora capisci come si comportano le persone, e ciò diventa un sostegno anche per i sentimenti più neri. Se non ho perduto le forze, è perché ero già attrice da bambina, e così m’immedesimavo nella sua sofferenza». DALLA FABBRICA DI CALZE AL PADRINO II. La madre resterà a Roma, Francesca comincerà il suo andirivieni con gli Stati Uniti, seguendo il padre e la sua seconda moglie. Per mantenersi lavorerà in una fabbrica di calze, venderà profumi della Avon, libri di notte, televisori. A teatro farà l’attrezzista, l’addetta al sipario. Benché bionda, pallida, non prosperosa, le affidano ruoli mediterranei. Francis Ford Coppola ne farà Carmela Corleone per il Padrino II. Il debutto è nel ruolo di una prostituta romana nel Lamento di Portnoy tratto dal romanzo di Philip Roth. Per il lancio del film, le chiedono di posare per Playboy. Rifiuta. ALLE RAGAZZE DICO CHE VENERE ESISTE. «Quel no a Playboy... », racconta nell’intervista, «forse fu un errore. La cosa più dura della mia vita non è stata l’infanzia, ma l’impatto con quel capitalismo dell’immagine del corpo, con la sessualità usata e venduta del cinema americano». Qualche anno dopo Marco Ferreri le propone il ruolo di protagonista di Ciao maschio, con Depardieu e Mastroianni, ma avrebbe dovuto girare nuda. Un altro no: avrà una parte minore. «L’importante», commenta ora, «è riuscire a trovare un equilibrio nell’uso della propria bellezza. Non deve essere venduta o rubata, ma occorre esserne consapevoli. Alle ragazze dei corsi dove insegno (dal 1987 ha aperto a Roma lo Studio di recitazione Duse ispirato al metodo Strasberg) dico sempre: “Venere esiste, e noi dobbiamo darle un tributo”». SE LEGGE LA NOTIZIA SU WEINSTEIN E GLI ALTRI... «Per prima cosa penso che denunciare un fatto di 40 anni prima sia esibizionismo, malafede. Una svendita di notizie. Quello che conta è che la donna sappia educare la propria coscienza a distinguere ogni situazione. Imparare a essere calde, senza cedere o scandalizzarsi. Continuare a essere attraenti, senza finire a letto con chiunque. Nel cinema ci sono persone tremende, per difendersi conta avere stima di se stesse e rispettare più di tutto la propria creatività. Chi impara a piacersi è più forte nelle relazioni di lavoro».