«Non doveva morire così»
«MIO MARITO AVEVA UN TUMORE TERRIBILE E NESSUNA SPERANZA», SPIEGA VALENTINA. «I MEDICI CI DISSERO CHE LO AVREBBERO ACCOMPAGNATO ALLA MORTE, MA L’HANNO FATTO MENTRE ERA ANCORA COSCIENTE» . E ORA I MAGISTRATI INDAGANO. È OMICIDIO VOLONTARIO?
Ci avevano promesso: “Non sentirà nulla”. Ma quando la dottoressa è entrata e ha spento il respiratore Roberto si è alzato di scatto, seduto sul letto. “Non respiro, non respiro”, diceva. Poi il collo è diventato tutto nero e si è accasciato. Pochi minuti dopo non c’era più. Ce l’hanno ammazzato davanti agli occhi». Valentina, gli occhi di una bambina che si è svegliata da un brutto sogno, scoppia a piangere. Suo marito Roberto, 31 anni, è morto il 15 marzo scorso in una stanza dell’ospedale Bolognini di Seriate, in provincia di Bergamo. Un adenocarcinoma allo stomaco se lo stava portando via da mesi. Non c’era niente da fare e Valentina lo sapeva bene, dice mentre guarda sua figlia Elisa, la copia del papà. «Roberto soffriva troppo e non gli restava molto da vivere. I medici avevano promesso di accompagnarlo alla morte con dolcezza, dopo una forte dose di morfina. Ma non è andata così», dice. Cioè? «Quando gli hanno staccato il respiratore Roberto era lucido e cosciente. È morto soffocato davanti a me e ai suoi fratelli. Non dimenticherò mai come ci guardava. È stato atroce». Sopra, Roberto Antonetti con la sua Elisa, 3. «A mia figlia ho detto che papà ora è in Cielo accanto a Gesù», dice mamma Valentina. Cominciamo dall’inizio, Valentina. Quando si è ammalato suo marito? «Nell’autunno dell’anno scorso cominciò a soffrire di stomaco. Mangiava sempre meno, aveva dei crampi, così il medico gli consigliò una gastroscopia, pensando a un’ulcera. Il risultato arrivò subito, inequivocabile: Roberto aveva un tumore al quarto stadio. Ci crollò il mondo addosso». Seguì una terapia? «Certo, trovammo un oncologo bravissimo e sensibile, che non ci nascose nulla ma gli fece fare la chemioterapia. I medici lo incoraggiavano e Roberto teneva duro: era un uomo solare, pieno di vita, innamorato della sua bambina. Sapevamo che la situazione era gravissima, ma lui non pensava alla morte. Voleva solo stare con me e con Elisa». Lo curavate a casa? «All’inizio sì, poi si era trasferito da sua mamma, che abita poco lontano, e io ero andata dai miei con la bambina. Lavoro in un centro commerciale, faccio i turni, non sarei mai riuscita a seguire lui ed Elisa lavorando. Andavamo a trovarlo tutti i giorni. Elisa guardava le flebo e gli chiedeva: “Papà, perché hai quei tubi attaccati al braccio?”. Lui riusciva sempre a farla ridere: “Mi danno una medicina speciale per essere più forte, così divento un supereroe”». Parlavate della malattia? «Ci ripetevamo sempre la stessa cosa: “Il Signore sa qual è la sua volontà, noi possiamo solo pregare”. La mia famiglia fa parte del movimento pentecostale, Roberto frequentava la mia chiesa. Trovavamo forza nella fede».