Tanti lavoretti, pochi diritti
Nella categoria dei “lavoretti” in cui molti fanno rientrare i riders ci sono baby-sitter, insegnanti a domicilio, operatori di call center... Sono così tanti che Riccardo
Staglianò ci ha scritto un libro ( Lavoretti, Einaudi) che li passa in rassegna tutti indicandone insidie e magagne. In molti settori, una quadra si è trovata: 50 mila degli 80 mila lavoratori di call center in Italia sono inquadrati da contratti
nazionali che forniscono tutele anche ai collaboratori. Per babysitter e lezioni private, possono essere stipulati contratti a chiamata o intermittenti, che però per legge riguardano gli under 25 e gli over 55. «I lavoratori delle aziende della gig economy ( quella delle app alla Deliveroo, per intenderci, ndr) hanno però un’età media tra i 18 e i 34 anni, una buona fetta di loro non può essere regolata da questi contratti», dice
Davide Serafin, analista economico di Possibile che dal 2016 segue le proteste dei riders. «Ci sono poi app che si limitano a connettere domanda e offerta, lasciando scegliere al datore l’inquadramento contrattuale. È il caso di Le Cicogne, app per trovare baby sitter: connette i genitori con le tate, lasciando ai primi il compito di decidere come pagarle», aggiunge. Serafin, che anima il sito giustapaga.it cui si possono chiedere informazioni e consigli per gestire i “lavoretti”, era a Bologna lo scorso 15 aprile alla prima assemblea nazionale dei
riders, in cui sono state formalizzate le richieste della categoria. « Ora serve un tavolo politico per fare una legge ad hoc che fissi salari minimi e
tutele », dice. «I contratti ci sono già, andrebbero solo fatti applicare. E bisognerebbe restituire ai lavoratori la possibilità di ricorrere contro il datore di lavoro, cancellata di fatto dal Jobs Act. Prima del Jobs Act, il lavoratore che faceva causa all’azienda e la perdeva non pagava le spese legali. Ora se perde paga. Con il conseguente paradosso che se vengo ingiustamente licenziato e faccio causa e la perdo, anche solo in primo grado, devo pure pagare i legali a chi mi ha licenziato», dice Giulia Druetta, l’avvocato che ha seguito i riders che hanno fatto causa a Foodora. «In appello dimostreremo che l’organizzazione del lavoro, le pressioni, le intimidazioni e il sistema di premi e punizioni messo in campo da Foodora configuravano una dipendenza dei riders dall’azienda in tutto e per tutto», conclude.