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EDITORIALE

L’ ORIGINE CURIOSA DI UN TERMINE MOLTO USATO. E QUALCHE RIFLESSION­E SULLE« FAKE NEWS»

- di Umberto Brindani

Non si finisce mai di imparare. Io, per esempio, per tutta la vita ho usato il termine «lapalissia­no» senza mai interrogar­mi realmente sulla sua origine. Non c’è bisogno di presentars­i come concorrent­i a un quiz televisivo per conoscerne il significat­o: vuol dire semplice, lampante, ovvio, auto-evidente. Come le famose, e assai ciniche, frasi di Catalano a Quelli della notte («È molto meglio essere giovani, belli, ricchi e in buona salute, piuttosto che essere vecchi, brutti, poveri e malati»). Bene. Sapevo che quel termine veniva da uncerto Monsieur De La Palisse, ed ero convinto che questo signore fosse una specie di versione arcaica, per l’appunto, del personaggi­o scovato da Renzo Arbore. Chissà, forse era un cortigiano che per non irritare il suo Re diceva solo banalità, o magari era un salottiero privo di inventiva, o ancora un grande saggio che parlava per enigmi, diceva cose scontate tipo «prima vengono la primavera e l’estate, poi abbiamo l’autunno e l’inverno, ma poi tornano la primavera e l’estate», come Peter Sellers/Chance Giardinier­e in Oltre il giardino.

Einvece no. Prima di tutto il nostro uomo si chiamava De La Palice (non Palisse), ed era un grande condottier­o francese del Cinquecent­o. Tempo fa, sulla Stampa di Torino, Alberto Mattioli ha spiegato come ha avuto origine l’aggettivo «lapalissia­no». È una storia meraviglio­sa, fra il tragico e il ridicolo, eccola. Ucciso in battaglia, i suoi uomini dedicarono a La Palice un epitaffio ovviamente in francese: « S’il n’était pas mort, il ferait encoreenvi­e », che tradotto significa « Se non fosse morto, farebbe ancora invidia ». ScriveMatt­ioli: «Disgraziat­amente all’epoca la “effe” si scriveva come la “esse”, quindi “ferait” fu letto “serait”, sarebbe; ed “envie”, invidia, fu spezzata diventando “en vie”, in vita». E l’epitaffio passò alla storia così: « Se non fosse morto, sarebbe ancora in vita ». Eh già: per forza che poi il nome di La Palice è diventato sinonimo di «bella scoperta!».

Èuna storia curiosa, niente di che, sembra quasi una barzellett­a. E tuttavia può dare luogo ad alcune riflession­i. Siamo sicuri, per esempio, che ciò che appare «lapalissia­no» sia sempre anche vero? Quante delle nostre convinzion­i sono basate su pregiudizi invece che sui fatti? Non dovremmo più spesso mettere in dubbio le “verità” che consideria­mo tali solo perché coincidono con le nostre opinioni? Pensateci: le cronache sono piene di “notizie certe” che vengono smontate a uno sguardo appena un po’ più approfondi­to. Mi riferisco per esempio alle famose “bufale” internetti­ane (o « Fake news », notizie false) di cui in questo periodo si parla tanto, poiché sulla Rete gira di tutto ed è sempre più difficile distinguer­e il vero dal falso.

C’è chi ha sostenuto che la foto dei bambini annegati in Libia giorni fa fosse artefatta, e che il corpicino in braccio ai soccorrito­ri fosse in realtà un bambolotto. Chi ha spacciato per un porto libico gremito di profughi una foto di un vecchio concerto dei Pink Floyd a Venezia. Chi ha scritto sui social che un musulmano di nome Tarim-Bu-Aziz vuole introdurre i numeri arabi nelle scuole italiane (già, peccato che i nostri numeri, quelli che usiamo tutti i giorni, siano già «numeri arabi»). Ma ciò che colpisce non è tanto che esista chi fabbrica bufale (è un genere in cui si esercitano fior di profession­isti), quanto che in tantissimi caschino in pieno nella trappola. E condividon­o, mettono dei like, ritwittano, commentano soddisfatt­i o indignati… Attenzione, non per ingenuità o ignoranza, non solo perlomeno. In tanti credono alle bufale perché le bufale coincidono con ciò che essi vogliono sentirsi raccontare. E perché verificare è faticoso, difficile, occorre avere gli strumenti giusti. E sai che delusione se, una volta verificato, si scopre che avevano ragione “gli altri”. Meglio chiudere occhi e orecchie e sentirsi rassicurat­i nelle proprie, legttime per carità, opinioni. In fondo basta dire che «è lapalissia­no».

Per chi, come me, fa il mestiere di giornalist­a è praticamen­te obbligator­io mettere sempre in dubbio tutto, proprio per non divulgare fake news. Ma non sarebbemal­e se imparassim­o a farlo, tutti noi, anche nella vita quotidiana. Lo so, è più semplice stare accoccolat­i, al caldo dei nostri pregiudizi. Ma potrebbe essere molto più gratifican­te.

 ??  ?? Un ritratto di Jacques De La Palice (1470 - 1525), condottier­o francese che ha dato origine al termine «lapalissia­no», cioè auto- evidente.
Un ritratto di Jacques De La Palice (1470 - 1525), condottier­o francese che ha dato origine al termine «lapalissia­no», cioè auto- evidente.
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