EDITORIALE
ABOSSETTI, COMEAOLINDO E ROSA, È STATANEGATAL’ULTIMAPOSSIBILITÀDIDIFESA. PERCHÈ?
P oco dopo le 22 di venerdì scorso, nel “Palazzaccio” romano dove ha sede la Cassazione, è stata scritta la parola fine sulla vicenda dell’omicidio di Yara Gambirasio. I giudici della Suprema corte, chiamati a decidere se doveva o poteva essere riesaminato il famoso Dna che incastra Massimo Bossetti, hanno detto che no, non ce n’è bisogno. Quel Dna è un po’ strano? È stato analizzato in assenza di controparti? Certi kit usati per l’esame erano scaduti? Potrebbe essere stato contaminato? Non perdiamo tempo, ha decretato la Corte: l’assassino è il muratore diMapello, che marcisca pure in galera. C hi di voi, care lettrici e cari lettori, ci segue da tempo sa che sul «caso Bossetti» il nostro giornale ha sempre espresso (e soprattutto documentato) ben più di una perplessità, esattamente come abbiamo fatto per altri fatti tristemente celebri, come la strage di Erba, il delitto di Perugia e l’omicidio di SimonettaCesaroni in via Poma a Roma. Sarebbe facile parlare di garantismo, anche se di questi tempi è diventata una brutta parola, quasi come buonismo. Ma vi garantisco, scusate il bisticcio, che il garantismo, soprattutto se vacuo e preconcetto, non c’entra niente. Sono in ballo questioni cruciali. Questioni di civiltà, non solo giuridica. D etto in soldoni: a me non interessa una giustizia purchessia. Io voglio la Giustizia, con lamaiuscola e l’articolo determinativo. Vorrei che chi sbaglia paghi solo se si è sicuri che ha sbagliato. E come si fa a esserne sicuri? Semplice: occorre provare la colpevolezza «al di là di ogni ragionevole dubbio». Non lo dico io, l’ho messo tra virgolette perché quella frase è il fondamento del nostro diritto e compare nel comma 1 dell’articolo 533 del Codice di procedura penale. Controllate, se non vi fidate. Quindi, se capisco bene la logica di quella frase, quando esista anche solo un «ragionevole dubbio» bisogna fermarsi un attimo e chiedersi: come facciamo per sgombrare il campo da questa incertezza? Non c’è che unmodo: lavorarci sopra, indagare ancora, approfondire, valutare eventuali errori, tanto più se eventualmente commessi in buona fede. E se dopo un supplemento di inchiesta il «ragionevole dubbio» viene fugato, bene, si può condannare. Viceversa, se il fastidioso dilemma resta lì, immobile e tenace, be’, la legge parla così chiaro che più chiaro non si può: bisogna assolvere. Anche a rischio di rimettere in libertà un assassino. P uò non piacere, me ne rendo conto. Un’assoluzione di questo tipo ricorda la vecchia «insufficienza di prove», per cui si passa da un’inquietudine all’altra, e cioè dal dubbio che Tizio sia un innocente in prigione al dubbio che in realtà si metta fuori un colpevole. Ma c’è poco da fare. Come scrivono gli americani anche nei cartelli lungo le interstatali, « It’s the law! », è la legge. Humphrey Bogart aggiungerebbe: «E tu non ci puoi far niente. Niente». E cco perché lascia perplessi la decisione dellaCorte di Cassazione su Bossetti. L’accusato, che si dichiara innocente, chiedeva di riesaminare il Dna. Se vengo fuori ancora io, diceva in sostanza, mi becco l’ergastolo e me lo merito. Ma se invece… Bastava poco. Ne hanno analizzati 18mila, diDna, in questa indagine, che problema c’era a riesaminarne uno, il 18 mila unesimo? Eppure questa facoltà non è stata concessa. P er la strage diErba, per la qualeOlindo e Rosa stanno scontando il «fine pena mai», è accaduto anche di peggio: alcuni reperti che non erano mai stati analizzati, mentre un paio di tribunali si palleggiavano la decisione, sono stati semplicemente distrutti. Bruciati prima della sentenza sul loro eventuale esame. Errore? Malafede? Chi lo sa. E pensare che non erano neanche ingombranti: un mazzo di chiavi, un accendino, dei peli. Probabilmente occupavano qualche centimetro cubo di spazio. Evidentemente troppi per una giustizia senza la maiuscola e senza l’articolo determinativo.