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EDITORIALE

LALETTERAD­I UN LETTORE, LARISPOSTA­DI UNALETTRIC­E. LE COSEDAVVER­O IMPORTANTI

- di Umberto Brindani

Ha colpito tanti lettori la lettera (che ho pubblicato sul n. 52) intitolata «Mi chiamoMarc­o, Francesco, Giovanni…». La storia semplice e triste di un uomo che, dopo trent’anni di lavoro e sacrifici, anche all’estero, «in mezzo al nulla», da un giorno all’altro viene licenziato, senza motivo, e tornando a casa in treno pensa a come dovrà dirlo in famiglia. «Sto tornando per restare,are, perché ho appena perso il lavoro. Mi sento tradito e mi chiedo a cosa è servito tutto ciò che ho fatto», scrive sconsolato.

Già, il lavoro. In questi mesi di annunci roboanti e polemiche feroci su Europa, spread, povertà, migranti, gilet gialli, ruspe, pensioni e reddito di cittadinan­za forse ce lo siamo un po’ dimenticat­i, il lavoro. Ad alcuni esponenti governativ­i, quando vengono accusati di populismo, piace rispondere ricordando l’articolo 1 della nostra Costituzio­ne, dove dice che « la sovranità appartiene al popolo ». Giusto. Ma, a parte che si parla di popolo e non di populismo, talvolta ci si scorda la seconda parte: « …che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzio­ne ». Forme e limiti, sia detto per inciso, che sono importanti e abbondanti (ce ne accorgerem­o, per esempio, quando la Corte costituzio­nale prenderà in esame il Decreto sicurezza contestato da molti sindaci). L’amnesia più preoccupan­te, in ogni caso, riguarda le nove parole che precedono, nel famoso articolo 1. Sono le prime in assoluto che i nostri Padri della patria hanno voluto scrivere nella Costituzio­ne: « L’Italia è una Repubblica democratic­a, fondata sul lavoro ».

Egià, il lavoro. Qualche giorno fa, sul Corriere della Sera, Nando Pagnoncell­i di Ipsos ha presentato un interessan­tissimo sondaggio, dal quale si scopre che, secondo gli intervista­ti, il problema più urgente da risolvere in Italia non è, come ci si potrebbe aspettare, quello dell’immigrazio­ne, o della sicurezza, o dell’assistenza. Ma invece, indovinate un po’, per tre italiani su s quattro è il lavoro. Per meglio dire, il i lavoro che manca, o che non è sufficient­e, c o non è soddisface­nte. Oppure è precario, o è a rischio perché la crisi colpisce c duro.

Si sta facendo qualcosa di determinan­te per affrontare un problema sentito da tre quarti dei concittadi­ni?dini? A me non ssembra: si profilano briciole di assistenzi­alismoma nessun incentivo ad assumere. In ogni caso, saranno i prossimi mesi a chiarirlo. Intanto, non ci resta che prendere atto del dramma di chi il lavoro lo perde, come il nostro «Marco, Francesco, Giovanni». O come la lettrice che gli ha voluto scrivere questa lettera.

« Mi chiamo Paola, Giovanna, Monica, fate voi. Caro Marco, Francesco, Giovanni, ho quasi 52 anni e ho subito la tua stessa sorte. Pochi giorni fa sono rimasta a casa, dopo 14 anni di onorato servizio presso un’importante agenzia di comunicazi­one multinazio­nale. Con una lettera di licenziame­nto tra le mani. Con un bambino adottato di 10 anni, un marito operaio e due anzianissi­mi genitori che sono affezionat­i lettori di Oggi. Anch’io, quel giorno in cui mi hanno consegnato la lettera, tornando a casa in treno ho pensato a come dirlo. Come fare, come agire. Ma, caro Marco, Francesco, Giovanni, i nostri figli sono più avanti di noi… Quando sono andata a prendere il mio bambino al doposcuola, mi ha visto tristissim­a e mi ha chiesto cosa fosse successo. Io gli ho detto: vestiti, te lo racconto dopo, in macchina. Mi ha detto: mamma me lo devi dire subito. E allora gli ho detto: ho perso il posto di lavoro. Lui ha messo la giacca, siamo usciti dalla scuola e in auto mi ha abbracciat­a fortissimo. E mi ha detto: mamma, pensavo mi dicessi che fosse morto il nonno. Ecco, mio figlio mi ha fatto capire quali sono le cose importanti. Poter godere ancora del calore dei miei adorati genitori, della famiglia e della salute. Al nuovo anno chiedo salute e tanta forza per poter ricomincia­re».

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SuS Oggi numero 52 del 2018 abbiamo ppubblicat­o questa lettera di un lettore che ssi firma ma chiede di essere chiamato «Marco, Francesco, Giovanni, fate voi».

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