Oggi

Emergenza e ritardi

ALLARMI DEIMEDICI IGNORATI, APPELLI DEIVIROLOG­ICADUTINEL VUOTO, DECRETI, ORDINANZE, REGOLAMENT­I E CIRCOLARIC­HE SI SUSSEGUONO­ESI SMENTISCON­O. E POI GOVERNOERE­GIONICHECE­DONOATATTI­CISMI. NELLA GESTIONE DELL’EPIDEMIA SIAMO STATI EROICI MAABBIAMOA­NCHE SBAGLIAT

- di Marianna Aprile

Di chi è

la colpa?

Ci sono due date che, al momento, incornicia­no l’epidemia da Covid-19 in Italia e la sua gestione: 31 gennaio e 25 marzo 2020. Laprima è quella deldecreto concui il Governo italiano, sulle orme dell’Oms (che il giorno prima ha dichiarato lo stato di emergenza internazio­nale), dichiara uno stato di emergenza sanitaria di seimesi. La seconda è quella in cui, otto settimane e una decina tra decreti legge, Dpcm e ordinanze ministeria­li più tardi, il Presidente del Consiglio Giuseppe Conte si presenta per la prima volta alla Camera (e al Senato) «per comunicazi­oni urgenti» sul Covid-19. Nel mezzo, una cascata di allarmismi inutili e allarmi reali ignorati, rassicuraz­ioni, liti tra Regioni e Governo, tra virologi, commissari, medici. Nelmezzo, anchemolti ritardi: nellemisur­e restrittiv­e, nell’acquisto e nella distribuzi­one di presìdi sanitari salvavita (permedici, infermieri, malati), nella determinaz­ione dei protocolli. E se è vero (e lo è) che negli ospedali italiani si combattono dal primo giorno battaglie eroiche, è altrettant­o vero che se siamo arrivati a oltre 11 mila morti (dati ufficiali al 31 marzo; sarebbero molti di piùperché sui deceduti di rado si fanno tamponi di verifica) è anche perché qualcosa non ha funzionato. Proviamo a capire cosa.

MOLTE LEGGEREZZE TANTE GUERRICCIO­LE

Sintetizza­ndo brutalment­e: abbiamo sprecato tempo (quindi vite) per quasi tre mesi. A dispetto delle autocelebr­azioni su social e tv (il 27 gennaio, ospite a Otto e mezzo, Conte dichiara: «Siamo prontissim­i. L’Italia è il paese che ha adottato misure cautelativ­e all’avanguardi­a rispetto agli altri, tutti i protocolli di prevenzion­e possibili e immaginabi­li») per settimane né la Protezione Civile, né la task force istituita (il 30 gennaio) dalMiniste­ro della Salute si sono davvero preoccupat­i di rifornire il Paese dell’essenziale: mascherine, tamponi, valvole, respirator­i. Il 23 febbraio, a Che tempo che fa, il virologoBu­rioni denuncia lamancanza di una catena di comando unica per la gestione dell’emergenza. E a posteriori aveva ragione. Un esempio su tutti: l’11 marzo il governo nomina l’Ad di InvitaliaD­omenicoArc­uri commissari­o straordina­rio per l’emergenza; il 18 marzo, il presidente Attilio Fontana nomina l’ex capo della Protezione Civile Guido Bertolaso super-consulente dellaRegio­ne Lombardia. Il risultato evidente, e non solo a posteriori, è che si frammenta l’azione, favorendo l’inefficien­za invece dell’efficienza. E ancora: solo il 4 marzo, cinque settimane dopo la dichiarazi­one dello stato di emergenza, ci si accorge di avere in casa, nel Bolognese, un’azienda che produce respirator­i per

IL PREMIER DICEVA «SIAMO PRONTISSIM­I».

MA MANCAVANO PERSINO LEMASCHERI­NE

mezzo mondo, e finalmente le si dà l’incarico di produrli per gli ospedali italiani (che dall’inizio ne denunciava­no la carenza). Sul fronte “terapie intensive”, si è aspettato che la casa bruciasse per muoversi ( Dataroom di Milena Gabanelli ha scovato un allarme - inascoltat­o- dei medici datato 4 febbraio), e spesso si sono mossi più velocement­e la solidariet­à e i privati, rispetto al governo. Infine, fronte mascherine: abbiamo assistito e assistiamo alla sgangherat­a gara - tra il ministro degli Esteri Luigi Di Maio, il presidente del Veneto Luca Zaia, quello della Lombardia Fontana, il capo della Protezione Civile

Angelo Borrelli – a chi si vanta di averne trovate più degli altri, senza che traspaia una rete di approvvigi­onamento (e produzione) organizzat­a che ne assicuri la disponibil­ità. Che infatti non c’è, a tre mesi dai primi due casi di Covid-19 censiti in Italia (i due turisti cinesi a Roma, 30 gennaio). Così come l’annuncio del primo provvedime­nto a sostegno delle fasce più povere - 400 milioni di euro da destinare a 8 mila Comuni italiani perché tutti possano fare la spesa - arriva solo il 28 marzo, molto dopo che la rete di solidariet­à di ogni città si è attivata tra “spese sospese” e attività di volontaria­to.

MA ABBIAMO O NO UN “PIANO” CHIARO?

La sensazione, settimana dopo settimana, è che manchi un “piano” chiaro con cui affrontare l’emergenza. Si aggrava la malattia più endemica della politica italiana: “l’annuncite”. Si annuncia di tutto. Si annunciano anche gli annunci. E, quando i provvedime­nti seguono, o si tarda ad attuarli (1.700 gli emendament­i, anche dei partiti di governo, al decreto Cura Italia, che stanzia i primi 25 miliardi; ritardi anche nell’erogazione dei tanti bonus previsti) oppure durano in vigore una manciata di ore, prima di ordinanze, regolament­i, rettifiche e nuovi decreti

a raddrizzar­e un tiro evidenteme­nte fuori fuoco dall’inizio. Un esempio che nessuno può aver dimenticat­o: gli orari di apertura dei locali. Il 22 febbraio, dopo l’esplosione dei focolai di Codogno e Vo’ Euganeo, il primo dei “Decreti Covid-19” del governo (quello che istituisce la “zona rossa”) stabilisce che debbano chiudere alle 18 anche quelli di Milano (“zona gialla”). Il 26 febbraio, marcia indietro: possono restare aperti dopo le 18, ma niente consumazio­ni al bancone, solo posti a sedere e distanziat­i. L’8marzo, torna la chiusura alle 18 e scompare il divieto di consumare al banco.

Tra il 26 febbraio e l’8 marzo, il sindaco di Milano Beppe Sala e quello di Bergamo Giorgio Gori rilanciano video e hashtag al grido di #milanonons­iferma e #bergamonon­siferma; il segretario del Pd Nicola Zingaretti arriva a Milano per bere un aperitivo sui Navigli con i giovani del partito; Giorgia Meloni pubblica foto dal Colosseo affollato per dire che in Italia tutto prosegue come sempre, fuori dalle zone rosse, quindi «venghino siòri, venghino» . Idem Matteo Salvini (che alternerà “aprite tutto” ad altrettant­o accorati “chiudete tutto”). La preoccupaz­ione di tutti è l’impatto economico della chiusura delle attività commercial­i e produttive. Che infatti viene rimandato oltre ogni ragionevol­ezza. Persino quando – il 2 marzo - è l’Istituto Superiore di Sanità a chiederla, inviando al Ministero della Salute una nota per chiedere l’istituzion­e di una zona rossa (come quella del lodigiano in febbraio) a Nembro, Alzano Lombardo e Orzinuovi, dove i dati del contagio sono allarmanti­ma le attività tutte aperte. La Regione Lombardia decide di lasciare al governo la responsabi­lità di bloccare le produzioni in quella zona così strategica per il Pil nazionale. Il governo decide di non farlo. Ancora una volta, lentezze e tatticismi politici alla base del disastro: laBergamas­cadiventer­à inquei giorni (ed è) la zona che paga il prezzo più alto all’epidemia. E le colonne di camion militari pieni di feretri lo ricorderan­no per sempre.

Poi ci sono i decreti. Il primo, doveva stanziare 3,5 miliardi, poi diventati 7,5 e infine deliberati in 25, con contestual­e annuncio di un “decreto Aprile” da altri 25, forse 50 miliardi. Ariprovade­lladiffico­ltà di quantifica­re, anche economicam­ente, gli effetti dell’emergenza e le reali possibilit­à di farle fronte. E idem per il decreto-dei-decreti, quello del 22marzo sul “lockdown” nazionale (poi perfeziona­to con un altro decreto, il 25marzo), la

chiusura delle attività non necessarie: annunciato, arrivato in ritardo e corredato da liste di attività che per giorni vengono riviste, ampliate, derogate. Un gran caos.

I CITTADINI DIVENTANO I “COLPEVOLI PERFETTI”

Il confuso susseguirs­i di annunci, decisioni (e indecision­i) alimenta la sottovalut­azione del problema da parte dei cittadini. A volte dolosa, altre colposa. Dolosa come la fuga notturna daMilano verso il Sud, nei weekend del 7 ma anche del 21 marzo (in concomitan­za con gli annunci di nuove restrizion­i in Lombardia). Dolosa come l’improvvisa voglia di jogging che ha colpito migliaia di persone in cerca solo di motivi per uscire di casa. Per settimanen­onsi è capito se fosse consentito passeggiar­e in città, con o senza cani, per dire. Quando il governo ha deciso che si poteva, ma nei pressi di casa, laRegione Veneto ha stabilito che “nei pressi di casa” significa 200 metri, almeno lì. La difficoltà di star dietro alle decisioni ha moltiplica­to sia le possibilit­à che fossero disattese sia gli alibi per ignorarle. Per non parlare delle autocertif­icazioni, quelle in cui si dichiara di avere un comprovato motivo per uscire di casa e che non si è sottoposti a quarantena. Sono cambiate quattro volte in unmese. Inizialmen­te bastava averle in digitale, sul cellulare, poi è diventato obbligator­io averle cartacee, per consegnarl­e alle forze di polizia ai controlli. Poi, certo, c’è chi ci marcia: tra il 24 e il 29 marzo, 257 persone positive al Covid-19 (e quindi tenute per legge alla quarantena) vengono intercetta­te a spasso e denunciate (rischiano 5 anni di carcereper epidemia dolosa).

Ma torniamo ai segnali confusi, parliamo di calcio. Mentre si diceva ai cittadini di non riunirsi nei parchi per attività sportive, il calcio andava avanti. Il 19 febbraio, a Milano, si gioca Atalanta-Valencia, ottavi di Champions, con 45 mila spettatori a San Siro, tra cui 40mila bergamasch­i (di lì a poco, il 35 per cento tra giocatori e staff del Valencia sarà positivo al Covid-19). Pochi giorni dopo San Siro inizia, ignorata, l’esplosione epidemica nella bergamasca. Ma non è abbastanza perché si impedisca all’Atalanta la trasferta a Lecce per la partita di Serie A, del 1 marzo successivo. Il campionato di calcio va avanti fino a quando la Fgci non ne voterà la sospension­e, il 9marzo, anticipata da partite sospese all’ultimo o giocate a porte chiuse.

SE ANCHE I COMPETENTI LITIGANO TRA LORO

Ma ci si sonomessi anche gli esperti. Dopo anni ad augurarci che la competenza tornasse al centro del villaggio spazzando via ciarlatani e profeti delle posizioni antiscient­ifiche, ci siamo ritrovati a veder battibecca­re tra loro luminari, propriomen­tre avevamo bisogno di capire con chiarezza quali fossero rischi da evitare e comportame­nti da seguire. L’esempio più eclatante è lo “scontro” tra il virologo Burioni e la collega Maria Rita Gismondo, dell’Ospedale Sacco di Milano. Il primo, a Che tempo che fa e sul suo sito medicalfac­t.it, metteva inguardia dai rischi

catastrofi­ci dell’epidemia, la seconda – via social e ppoi con uno spazio fisso sullF Fatto Quotidiano­Q – tendeva a ridimensio­narli. Il 23 febbraio Gismondo dice: «Follia scambiare un’infezione appena più seria di un’influenza per una pandemia letale», corredando l’affermazio­ne con dati sulla letalità delle influenze. Burioni le risponde (non sempre con eleganza, va detto) ribadendo le peculiarit­à allarmanti del Covid, ma i due torneranno a scontrarsi a distanza il 13 marzo e in seguito anche il primario di Malattie Infettive del Sacco Massimo Galli la correggerà. E solo un esempio. Ci saranno discordant­i pareri su mascherine, sopravvive­nza del virus sull’asfalto e molto altro. Una frammentaz­ione di autorevole­zza che per qualcuno rende opinabili i consigli basati su evidenze scientific­he. E che porta a vere e proprie mistificaz­ioni. Come il video, subito virale, in cui si vede Burioni dire che è «più facile essere colpiti da un fulmine» che contrarre il Covid. Le immagini si riferiscon­o alla puntata di Che tempo che fa del 2 febbraio e non tengono conto del fatto che allora non c’era evidenza della circolazio­ne del virus in Italia (i due turisti cinesi erano allo Spallanzan­i) e quindi il rischio di contrarlo poteva essere considerat­o zero. Del resto, già il 26 gennaio, prima dello stato nazionale di emergenza, Burioni proponeva la quarantena per chiunque tornasse dalla Cina o fosse stato lì nei 14 gg precedenti («In assenza di vaccini e cure, la nostra sola arma è evitare la diffusione»). Il governo non lo ha ascoltato, la comunità scientific­a s’è frammentat­a. Il resto, purtroppo, lo sappiamo.

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