Oggi

Cristina Parodi

«VORREI SAPERE PERCHÉ IL VIRUS CI HA COLPITO TANTO DURAMENTE, MA PURTROPPO NON HO UNA RISPOSTA », SCRIVE LA GIORNALIST­A, MOGLIE DI GIORGIO G ORI, SINDACO DELLA CITTÀ PIEGATA DA TROPPI LUTTI .« ASCOLTIAMO IL PAPA E CAMBIEREMO IL MONDO»

- a cura di Massimo Laganà

Il suo diario dall’inferno di Bergamo

Mai avrei pensato che la mia Bergamo, la città dove vivo da 25 anni, la città che possiede tante meraviglie nel campo dell’arte, della musica, della gastronomi­a e del paesaggio, potesse far notizia in tutto il mondo per un primato così triste: il luogo più colpito dal Coronaviru­s. Eppure è così e oggi, dopo tre settimane di quarantena, leggendo un articolo molto informato di The New York Times, ne ho la certezza.

Ufficialme­nte finora sono quasi 2.000 le vittime del contagio nella provincia, ma purtroppo è una stima molto più bassa del dato reale. Imorti potrebbero essere quattro volte tanti, forse anche di più. Non rientrano nelle statistich­e i tantissimi anziani che in ospedale non ci sono mai arrivati, perché sono morti nelle case di riposo, diventate micidiali focolai di virus, o nei letti delle proprie case, senza aveva mai avuto un tampone.

Vorrei provare a scrivere un diario di questi giornimeno doloroso, ma non ci riesco. Vorrei riuscire a capire perché proprio qui a Bergamo, in questa città così operosa, produttiva, moderna ed efficiente sia esploso un simile inferno, però non ho una risposta. Ho soltanto davanti agli occhi ormai da settimane una città deserta, immobile e strazia

ta dal dolore. Strade vuote, dove circolano esclusivam­ente ambulanze e polizia. Campane che suonano a morto. E balconi dove la gente non esce a cantare perché troppa è la sofferenza. A Bergamo si piange in silenzio, per non disturbare. Ognuno di noi conosce almeno una persona che stamale, che è ricoverata in ospedale o che è morta. Bergamo prega invece di cantare e si stringe intorno al proprio dolore. L’inizio dei giorni di isolamento è stato strano. Ero da sola a casa con Giorgio, mio marito, che, da sindaco della città, comunque ogni giorno usciva, per andare in Comune e tornava la sera tardi, preoccupat­o connotizie semprepiù gravi. Io ero in ansia per le mie figlie che studiano in Inghilterr­a. Nessuno poteva immaginare quello che sarebbe successo.

«MI CONFORTA L’ONDATA DI SOLIDARIET­À»

La situazione precipita il 9 marzo, quando l’ospedale Papa Giovanni XXIII viene letteralme­nte preso d’assalto daimalati. I nove posti di terapia intensiva sono insufficie­nti per gestire l’emergenza; si allestisco­no nuovi reparti. Il pronto soccorso sta per esplodere. È stato allora che, assieme agli amici diCesvi, laongdiBer­gamodi cui sono ambasciatr­ice da oltre vent’anni, abbiamo deciso di aprire una raccolta fondi, per aiutare medici, infermieri e tutto il personale sanitario. Da quel momento le mie giornate a casa sono state scandite da un fitto lavoro di contatti, donazioni, comunicazi­oni su social, interviste. E il tempo da allora continua a passare veloce, davanti al computer, come sempre, impegnata in un lavoro che dà un senso alla mia impossibil­ità di uscire e rendermi utile in altro modo. Da una parte sono travolta dal crescendo di ansia per la situazione semprepiùg­rave, dall’altrami sento confortata dall’ondata di affetto e generosità che continua ad arrivare. Non solo dalle tantissime persone che ci hanno sostenuto sul web, ma anche

damolte aziende della bergamasca, che hanno fatto donazioni davvero importanti. A oggi abbiamo raccolto circa 3 milionieme­zzodieuro, cheinparte sono già stati trasformat­i in aiuti concreti, rivolti innanzitut­to all’ospedale con le forniture di dispositiv­i di sicurezza (mascherine, camici, occhiali, calzari ) per il personale sanitario e poi per tutti i medici di base che lavorano sul territorio e nelle case di riposo. Molti dei quali si erano già ammalati, proprio perché costretti a visitareim­alati a domicilio, senza protezione. Abbiamo poi comprato macchinari­medici di cui c’era necessità: una tac mobile per il nuovo ospedale da campo allestito in fiera dagli Alpini, un cardio help, 11 ventilator­i, respirator­i, caschi ossigenant­i. Una parte dei soldi servirà anche a finanziare un progetto sociale per aiutare gli anziani che vivono soli nella provincia. La cosa più triste è realizzare che questa pandemia spazzerà via un’intera generazion­e di anziani, come ha detto il presidente­Mattarella: sono i genitori dimolti di noi, i nonnidi tanti bambini, figure preziose per la nostra comunità. Ogni mattina sull’Eco di Bergamo ci sono pagine e pagine di necrologi con le foto sorridenti dei tanti martiri del Coronaviru­s: una Spoon River ben più triste, perché intessuta di persone che nessuno canterà o racconterà. È passato già un mese di isolamento e ci stiamo ormai abituando a questa vita diversa, che ha cambiato i nostri ritmi, le nostre relazioni, il nostro lavoro. Abituata a viaggiare spesso e a muovermimo­lto per lavoro, pensavo che sarei impazzita a stareferma tralemura di casa. Invece è statounese­rcizioutil­e di organizzaz­ione, di impegno per gli altri e anche di lavoro sume stessa.

«SONO PREOCCUPAT­A PER MIO MARITO...»

Mi chiedo cosa ricorderò di questi giorni passati in casa a sentire notizie e a raccoglier­e soldi per la mia città. Non solo paura e dolore. Anche la dolcezza di ritrovare lamia famiglia, di avere di nuovo vicini i miei figli. Alessandro è tornato da Siena, dove stava facendo uno stagedopo la laurea; lemie ragazze sono rientrate dall’Inghilterr­a: Benedetta studiava per unmaster a Canterbury e Angelica, la piccola, frequentav­a l’ultimo anno del college. Con loro due non ci siamo ancora abbracciat­e. Stanno finendo l’isolamento di due settimane, per essere certe di non essere contagiose. Ma la loro presenza a casa è una gioia immensa. Angelica canta nella sua camera, Benedetta studia, Alessandro fa il volontario: va a comprare la spesa per gli anziani e la consegna a casa. Ci ritroviamo la sera a guardare un film, a discutere di ansie e di progetti futuri, a confortare Giorgio, che non si è mai fermato un attimo dall’inizio di questa epidemia. Miomarito lavora dalmattino alla sera, sempre in prima linea, come se questo virus non potesse toccarlo. Sono preoccupat­a per lui, ma so che non potreimai convincerl­o a fermarsi. Cosa non dimentiche­rò mai di questo periodo? Innanzitut­to l’immagine straziante e lancinante dei camion militari che portano via da Bergamo le bare delle vittime: i morti che il cimitero non può più seppellire. Poi la vista di PiazzaVecc­hia completame­nte deserta: il cuore di una città fantasma in cui si sente solo il suono della fontana. E infine il volto addolorato del pontefice a SanPietro, inuno scenarioap­ocalittico. Ho visto un uomo solo e stanco. Eppure fortissimo. In una piazza immensamen­te vuota. Maestosa e minacciosa. Pioveva, ma sembravano lacrime. Papa Francesco pregava in silenzio. Perché il cuore non ha bisogno di parole. «Per superare questa tempesta inaspettat­a e furiosa dobbiamo renderci conto che siamo sulla stessa barca e tutti insieme dobbiamo remare. È tempo di scegliere cosa conta e cosa passa, cosa è necessario e cosano». Bergoglio cihapresop­er mano e ha detto la cosapiù importante: ilmondo in cui viviamo non sarà più lo stesso. Passata la tempesta, starà a noi scegliere di cambiarlo in meglio.

 ??  ?? «Giorgio è sempre fuori per lavoro. Vorrei che rallentass­e, ma so che non mi ascoltereb­be»
«Giorgio è sempre fuori per lavoro. Vorrei che rallentass­e, ma so che non mi ascoltereb­be»
 ??  ?? PRIMA DEL DRAMMA In alto, Giorgio Gori, 60 anni, sindaco di Bergamo, e la moglie, Cristina Parodi, 55. Sotto, la coppia a passeggio con i figli sulle Mura di città Alta. Gori è al suo secondo mandato. È stato rieletto lo scorso anno.
PRIMA DEL DRAMMA In alto, Giorgio Gori, 60 anni, sindaco di Bergamo, e la moglie, Cristina Parodi, 55. Sotto, la coppia a passeggio con i figli sulle Mura di città Alta. Gori è al suo secondo mandato. È stato rieletto lo scorso anno.
 ??  ?? EROICO Don Giuseppe Berardelli, 72, è morto dopo aver rinunciato al respirator­e per lasciarlo a un malato più giovane.
EROICO Don Giuseppe Berardelli, 72, è morto dopo aver rinunciato al respirator­e per lasciarlo a un malato più giovane.

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