Oggi

Dopo anni di nuovo instudio

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er la storia del mio ultimo romanzo ho pescato nel quotidiano. Dopo aver smesso di fare il medico di base mi sono impegnato in una attività di volontaria­to in una comunità psichiatri­ca. Nel romanzo non esalto il disagio, ma cerco di far risaltare quella parte di umane qualità e di intelligen­za che spesso viene nascosta dall’etichetta “matto”, e uso sarcastica­mente questo termine grossolano».

Andrea Vitali seleziona con cura le parole che gli servono per raccontare il suo romanzo Un uomo in mutande (Garzanti), l’ultimo della serie dedicata alle indagini del maresciall­o Ernesto Maccadò, il carabinier­e occhiuto

Pe paterno che vigila sulla comunità di Bellano. La cornice è quella che conosciamo bene: un paese dove si sa tutto di tutti, e quello che non si sa lo si inventa, la vita decorosa ma frugale degli Anni 20, le voglie nascoste, i peccati svelati e un lago languido a fare da frontiera e baluardo per questa comunità sostanzial­mente chiusa.

Tornando al romanzo, nel caso del suo personaggi­o, l’etichetta di matto cosa occulta?

«Occulta la verità. O meglio, nessuno, conuna sola benemerita eccezione, crede a quello che lui dice di aver visto. Questo è l’innesco per una vicenda che si complica di pagina in pagina».

Tra le righe del libro racconta la condizione di un disabile tanti anni fa. Era peggiore o migliore rispetto a quella attuale?

«Il meccanismo era diabolico. Tanti poveri cristi dovevano fare i conti con la cattiveria del marchio di fabbrica. Il matto del paese era tale per tutta la sua esistenza. Non c’era possibilit­à di redenzione. Nelle piccole comunità accade la stessa cosa, ma con conseguenz­eminori, coi soprannomi. Se te ne affibbiava­no uno te lo portavi dietro tutta la vita, e anche oltre, perché spesso finiva sul manifesto funebre. D’altro canto c’era anche grande tolleranza e compassion­e, nel senso alto del termine».

Da giovane Andrea Vitali avrebbe voluto fare il giornalist­a. Fu il padre che gli fece scegliere Medicina

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