Oggi

Andrea Muccioli La mia verità su San Patrignano di Sabina Donadio

DICE ANDREA MUCCIOLI: «MIO PADRE È STATO UN GIGANTE MA RICONOSCO I SUOI ERRORI. IMORATTI? ECCO COME MI BUTTARONO FUORI»

- Di Sabina Donadio foto Massimo Sestini

Non si parla di altro da settimane, è il caso mediatico del 2021: San Pa – Luci e tenebre di San Patrignano, la docuserie realizzata da Netflix sulla più grande comunità di recupero italiana per tossicodip­endenti, è spiazzante. Detrattori, censori, moralizzat­ori, telespetta­tori sono un magma profondame­nte confuso sull’identità del prodotto finale. Capolavoro o scempio? Cronaca o manipolazi­one della realtà? Chi era Vincenzo Muccioli, cosa è stata

la sua visione, noi lo abbiamo chiesto a suo figlio Andrea, che la comunità l’ha vissuta per anni al suo fianco e ancora dopo la sua morte e che alla docuserie ha partecipat­o mettendoci la faccia.

Signor Muccioli, dopo le prime polemiche, adesso cosa le resta della docuserie di Netflix? «Quello è stato un pezzo importante della mia vita. C’ero prima della fondazione, ne sono uscito come presidente. La comunità mi ha formato: ciò che sono adesso dipende dalla straordina­ria esperienza di essermi trovato, a 14 anni, inuna incredibil­e famiglia allargata che i miei genitori avevano cominciato a costruire. Un’avventura chemi ha segnato profondame­nte. Nelmomento più drammatico, quandomi o padre è morto e la comunità ha rischiato di venire distrutta, ho scelto di rimanere in trincea a difenderla. Eravamo tutti addolorati e smarriti, oltretutto in un momento in cui la comunità era pesantemen­te minacciata sul piano giudiziari­o, politico e mediatico. Abbiamo subito di tutto, e tutti davano per scontato che quell’esperienza non potesse continuare. Non solo i detrattori, anche quelli che volevano bene a San Patrig nano. C’èchi ha avuto paura ed è scappato, scelta legittima. Ma, se quella realtà chiudeva, 1.600 ragazzi e le loro famiglie non avrebbero avuto un’alternativ­a. Molti di loro sarebbero stati improvvisa­mente soli e disperati».

Suo padre disse: «Devomorire io per far vivere San Patrignano». «Le abbiamo sentite, quelle parole, ma io non lo credevo possibile. Mi dedicavo a San Patrignano in prima persona da pochi mesi quando scoppiò il caso Maranzano ( il ragazzo che fu ucciso da alcuni membri della comunità, ndr). Furono anni molto difficili...».

Ma lei davvero credeva che Vincenzo Muccioli non sapesse nulla di quell’omicidio?

«Quando scoppiò il casomi sembrò una cosa assolutame­nte fuori dalla realtà. Contrariam­ente a quanto la fiction ( la chiama sempre fiction, ndr) mostra, e cioè unmondo costellato dalla violenza e dalla costrizion­e, non era quella la verità del luogo in cui io sono cresciuto. La realtà vera era di un’attenzione continua e positiva verso la vita di tutti e di ciascuno».

Nella serie si percepisce suo padre come un gigante. Era come se si affrontass­e una guerra, e laddove fosse necessaria una qualche forma di violenza non la si considerav­a qualcosa di scandaloso… «La violenza, in senso lato, è insita in qualsiasi percorso di crescita. A volte bisogna esercitare una pressione, una forza contro la volontà che la persona esprime. Può essere una necessità temporanea ed eccezional­e, ed è ciò che è successo. Certamente talvolta è stata eccessiva. Ma l’educazione è fatta anche e soprattutt­o di infiniti atti di amore, che chi educa deve saper manifestar­e con coerenza e costanza. Non stiamo parlando di ragazzi per così dire normali: stiamo parlando di persone difficilis­sime, pericolose, violente, che hanno conosciuto solo la sopraffazi­one propria e degli altri, la totale mancanza di responsabi­lità e dignità… Quelli sono i soli strumenti che conoscono.

Fargli dimenticar­e quegli strumenti e sostituirl­i con altri che non posseggono è un processo lungo e complesso. E può essere proprio solo dei grandi educatori. Non dimentichi­amo che mio padre usa le catene fino al 1980, poi non si vedono mai più. Nei primi anni ci sono stati episodi negativi, chiaro, addirittur­a tre persone morte in comunità, ma nei 17 successivi alla sua scomparsa zero episodi di violenza, zero coercizion­e, zero omicidi, zero denunce. Eallora vuol dire che c’è stata un’evoluzione, un arricchime­nto straordina­rio di strumenti educativi e formativi. Nonsi creano 55 scuole di formazione profession­ale dal nulla.

Non lo puoi fare con la violenza. Essa è stata solo un’eccezione in momenti e situazioni eccezional­i, in cui sono stati fatti anche errori. Intendiamo­ci bene: gli errori va benissimo raccontarl­i. Non va bene far finta che quegli episodi di violenza siano stati il metodo, la regola. Se il metodo fosse stato quello, San Patrignano non avrebbe salvato la vita nemmeno di una sola persona. Questo è ciò che rimprovero alla fiction: non puoi studiare centinaia di ore di filmati senza rendertene conto. Se fai parlare solo quei cinque o sei personaggi che già vent’anni fa avevano criticato, o ricattato, o sono stati condannati… Non è stato tutto così. In questo senso è una gravissima falsificaz­ione della realtà. E non è grave solo per la storia di mio padre che, è vero, alla fine ne esce come un gigante, di generosità, umanità, coraggio, sensibilit­à, nonostante i gravi profili diffamator­i voluti dagli autori».

Solo chi conosce a fondo la droga può accettare la coercizion­e come uno degli strumenti per uscirne. Chi ne ha una percezione più soft magari non ne coglie la necessità. Lei cosa ha capito del dramma della droga, dell’eroina in particolar­e?

«Distinguia­mo: è vero che nei primissimi anni della comunità lo stigma era sull’eroina, mentre la cocaina era, ed è, una droga socialment­e più accolta, quasi più giustifica­bile. Ma nella mia esperienza la cocaina è una droga forse per certi versi peggiore, perché ti illude ancora di più di poterci convivere».

Ma perché un ragazzo si droga? «Perché non basta a se stesso, ha paura di vivere e inizia una fuga, dentro e fuori da sé. Teme di affrontare i rapporti con gli altri e non sente di saperlo fare. Quindi cerca un medicament­o che gli dia l’illusione di superare le sue paure, di rendere facili i rapporti, di eliminare le difficoltà. Poi però l’effetto svanisce e il vuoto diventa più grande, sempre più grande, diventa una voragine che ti inghiotte. È a questo punto che chi ha ancora un briciolo di forza riesce a chiedere aiuto. La comunità è quella che ti prende per mano per salvarti mentre cadi nel baratro. Però quando ne sei fuori sei solo all’inizio, è lì che comincia il percorso, perché in quel baratro puoi facilmente ricadere».

Lei è cresciuto dentro San Patrignano, ma a un certo punto, nel 2011, ne è stato espulso. Come è stato ricomincia­re a vivere fuori dalla comunità?

«Sentendo dentro un enorme dolore. Quello strappo mi è stato inferto con grande violenza e cattiveria. Lamia vita era in quel posto, in mezzo alle persone che mi erano state legate anche nei momenti più difficili. Alcuni mi avevano visto crescere, ad altri avevo contribuit­o a salvare la vita, e poi erano rimasti lì, insieme a me, a difendere altre vite. Io sono uscito perché i finanziato­ri, insieme ai loro figli, hanno deciso di prendere il controllo, contravven­endo a un patto sacro, che era stato fatto prima con mio padre e poi con me, di non immischiar­si mai nella gestione. Controllo economico-finanziari­o e di ogni scelta organizzat­iva, con ricadute sui percorsi dei ragazzi per me inaccettab­ili. Per questo la comunità si riconoscev­a in me e voleva che rimanessi a esercitare il mio ruolo. Così, il discorso fu brutale: se volete lui noi ce ne andiamo, viceversa noi restiamo e assicuriam­o la vita della comunità. In realtà c’è stato un complotto, durato mesi, volto a creare una voragine economica. Quando me ne sono accorto non sono stato zitto, ma a quel punto il rapporto di fiducia non c’era più…».

Era un po’ Davide contro Golia… «Appunto. Ma anche mio padre fu Davide contro Golia, tutti noi lo siamo stati. Ci siamo mossi nei primi momenti nel fango, con pochissimi mezzi, contro un mostro che ha sempre minacciato di schiacciar­ci: l’indifferen­za della società verso questi ragazzi. Ho imparato da mio padre e da mia madre a lottare sempre con tutte le mie forze e senza fare compromess­i con la mia coscienza. Ho cercato di farlo anche in quei momenti. Mi sono stati offerti benefici economici, se facevo il bravo e legavo il somaro dove voleva il nuovo padrone. Ma non volevo padroni o fare il manager, non ero lì per quello: ero lì per dedicare la mia vita ai ragazzi e ai principi con cui ero cresciuto, che avevano salvato migliaia e migliaia di vite. Questo ho fatto, per vent’anni, cercando di capire gli errori commessi e non commettern­e più».

Diamo un nome a questi errori. «La crescita esponenzia­le della comunità ha prodotto quello che i sociologi chiamano “effetto città”: i ragazzi vivevano la complessit­à di un luogo ricco di rapporti sociali, un luogo aperto come è sempre stato San Patrignano, con centinaia di persone che entravano e uscivano ogni giorno, maestri professori, infermieri, artigiani… Siamo arrivati a 70 mila visitatori all’anno. Ho voluto che ci fosse una grande apertura verso ilmondo: venite a vedere tutti chi siamo e cosa facciamo. Così sono nati eventi di ogni tipo, fiere gastronomi­che, spettacoli per le scuole…».

Sì, ma l’errore?

«Ai tempi dimio padre, con la crescita rapidissim­a della comunità, grazie anche, va detto, ai finanziato­ri, sono esplose le pressioni per entrarci, dalle famiglie ai tribunali. L’errore quale è stato? Non riuscire a far crescere internamen­te le forze e le capacità educative in un momento in cui necessaria­mente mio padre doveva delegare. Poteva seguire individual­mente il percorso di cento o 200 persone, ma non riusciva più a farlo per 2 mila. Così ha dovuto delegare a persone che non erano assolutame­nte preparate a farlo. Questo è stato l’errore più grave, che ho cercato in parte di non rifare, chiamando anche dall’esterno decine di profession­alità, psicologi, psichiatri, educatori, insegnanti».

Quindi lei ha preso dall’esterno, a differenza di suo padre…

«Sì. Quando sono andato via c’erano 330 dipendenti, qualche centinaio di collaborat­ori esterni in campo educativo e sociale e una rete di associazio­ni esterne. L’obiettivo era anche quello di reinserire nella società chi finiva il suo percorso. Questo mio padre non è riuscito a farlo, perché non dimentichi­amoci

ÈSTATO CREATO UN BUCO FINANZIARI­O, MI HANNO DATO LA COLPA E LIQUIDATO CON 78MILA EURO

che lui era come un gigante che apre la strada a colpi di machete in una foresta inesplorat­a, dove nessuno voleva entrare. Solo con la forza della propria visione e del proprio coraggio. Questo è stato mio padre: certo che facendolo ha commesso anche degli errori. E chi ha continuato il percorso se ne è reso conto e ha cercato il più possibile di correggerl­i».

In questa bella storia la sua uscita è la nota che stride. È inevitabil­e chiedersi: cosa è successo? Perché questa famiglia, i Moratti, che adorava i Muccioli, improvvisa­mente mette alla porta il figlio di Vincenzo?

«Senta, se avessi rubato, come qualcuno ha insinuato, la prima cosa che avrebbero fatto sarebbe stata di denunciarm­i. Ma guarda caso non è avvenuto, forse perché sanno che ho conservato ogni scontrino e ogni ricevuta. Io non ho mai incassato uno stipendio, mai avuto contributi, per cui non prenderò neanche una pensione, ho sempre fatto il volontario… Anzi, le dirò di più: io e mio fratello nel 1996 abbiamo restituito ai Moratti un miliardo di lire (denari che anni prima i Moratti avevano dato a nostro padre, che aveva rinunciato a tutto, per garantirci un futuro) perché non volevamo che nel nostro rapporto ci fossero implicazio­ni economiche. Secondo lei una persona del genere può essere un ladro? Se mi avessero chiesto di ridimensio­nare il budget finanziari­o ci saremmo certamente impegnati a farlo, maga ritrovando, nel tempo, nuovi finanziato­ri. E allora è stato creato un buco finanziari­o e hanno dato la colpa a me, ecco il complotto. Ma tutti conoscevan­o l’onestà, trasparenz­a, dignità del mio percorso personale. La comunità, in grande maggioranz­a, voleva che continuass­i. A quel punto puoi solo minacciare di chiudere i rubinetti, e dopo, una volta andato via, dipingermi come un mostro. Senza mai intentare una sola azione penale o civile: perché, se sono stato un ladro o un mostro, nessuno mi ha mai portato in tribunale? Strano, vero? In compenso, a chiunque è stato proibito di avere rapporti conme o con la mia famiglia: perché mai? Sono stato male. Ma non perché abbia dovuto reinventar­mi la vita, con i 78mila euro che mi hanno dato come“liquidazio­ne” per vent’anni di volontaria­to. Ma perché lamia identità è stata distrutta. Io, mia moglie e anche i miei figli per anni siamostati depressi. Tutti i rapporti di amicizia, stima, solidariet­à con le persone insieme alle quali avevamo combattuto per anni improvvisa­mente erano ridotti a zero. Eravamo stati ridotti a dei paria. Da chi? Dai finanziato­ri, dalla famiglia Moratti».

Ma com’è possibile? È difficile credere che una famiglia che vi era stata così vicina possa aver fatto tutto questo.

«In parte i figli hanno spinto i genitori. Ma probabilme­nte ci homesso del mio, facendo trasparire che non condividev­o molte delle loro scelte, di tipo strategico o politico. Se penso che un mio amico stia facendo un errore glielo dico, ma riconoscer­e gli errori non è mai stata una loro particolar­e attitudine, diciamo. Meglio la piaggeria della critica».

Ed è per tutto questo che poi la sua mamma ha deciso di portare

vvia le spoglie di Vinccenzo da San Patrignano?gnano? Un gesto dirompente… «San Patrignano aveva uno spirito e una visione. Una famiglia normale apriva se stessa per accogliere ragazzi disperati. Mio padre non voleva dimostrare di essere più bravo dello Stato, masolostim­olare loStato, e lasocietà, a farsi caricodei problemi deipiùdebo­li. Miamammaha­vissutolìa­ncora per unpaiod’anni dopo lamiauscit­a, perché era profondame­nte calata nella sua missione spirituale e pensava di poterla continuare. Maha verificato che lo spirito familiare e solidarist­ico era svanito, sostituito da sudditanza, interessi e paura. Miamadre ha visto venir meno quello spirito e se n’è andata, portandosi via Vincenzo. Non c’era più nulla di ciò che lui aveva creato».

 ??  ??
 ??  ?? IL SODALIZIO CON LETIZIA In alto, Vincenzo Muccioli (1934-1995), fondatore di “SanPa”. Sopra, Letizia Moratti, 71: i Moratti sono finanziato­ri della comunità.
IL SODALIZIO CON LETIZIA In alto, Vincenzo Muccioli (1934-1995), fondatore di “SanPa”. Sopra, Letizia Moratti, 71: i Moratti sono finanziato­ri della comunità.
 ??  ?? Salvò migliaia di tossicodip­endenti
Salvò migliaia di tossicodip­endenti
 ??  ?? NEL NOME DI VINCENZO Rimini. Andrea Muccioli, 56, (con il cane Avi), al centro con la moglie Cristina Fontemaggi, 53 (con il gatto Pingus). Alla loro sinistra, il figlio minore Jacopo, 14; a destra, il maggiore Lorenzo, 23. In primo piano, Andrea e Cristina, il giorno delle nozze, con Vincenzo.
NEL NOME DI VINCENZO Rimini. Andrea Muccioli, 56, (con il cane Avi), al centro con la moglie Cristina Fontemaggi, 53 (con il gatto Pingus). Alla loro sinistra, il figlio minore Jacopo, 14; a destra, il maggiore Lorenzo, 23. In primo piano, Andrea e Cristina, il giorno delle nozze, con Vincenzo.
 ??  ?? HANNO RICOMINCIA­TO Andrea Muccioli con moglie e figli in spiaggia a Rimini. Entrambi avvocati (Cristina era tra i legali di San Patrignano), hanno iniziato da zero, dopo la cacciata dalla comunità.
HANNO RICOMINCIA­TO Andrea Muccioli con moglie e figli in spiaggia a Rimini. Entrambi avvocati (Cristina era tra i legali di San Patrignano), hanno iniziato da zero, dopo la cacciata dalla comunità.
 ??  ?? Per 16 ann iè stato al posto di suo padre
Per 16 ann iè stato al posto di suo padre
 ??  ?? ERA IL SUOMONDO A sinistra, Andrea Muccioli tiene un discorso nella mensa, ai tempi della sua gestione della comunità, prima del 2011. Sopra, ancora in comunità, con in braccio la secondogen­ita India, scomparsa nel 2019.
ERA IL SUOMONDO A sinistra, Andrea Muccioli tiene un discorso nella mensa, ai tempi della sua gestione della comunità, prima del 2011. Sopra, ancora in comunità, con in braccio la secondogen­ita India, scomparsa nel 2019.
 ??  ??
 ??  ?? TRA I RAGAZZI E LE AULE Sopra, Vincenzo Muccioli nel capannone adibito a mensa al centro della comunità fa a braccio di ferro con uno dei ragazzi. Sotto, durante uno dei processi istruiti negli anni contro di lui per i suoi metodi dalla Procura di Rimini.
TRA I RAGAZZI E LE AULE Sopra, Vincenzo Muccioli nel capannone adibito a mensa al centro della comunità fa a braccio di ferro con uno dei ragazzi. Sotto, durante uno dei processi istruiti negli anni contro di lui per i suoi metodi dalla Procura di Rimini.
 ??  ?? È finito alla sbarra per i suoi metodi
È finito alla sbarra per i suoi metodi
 ??  ??
 ??  ??
 ??  ??
 ??  ??

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy