Cadere da cavallo per inventare il mondo
L’arte come concezione del creato nel volume Dal cielo alla terra, nuovo libro di Vittorio Sgarbi.
La creatura umana è sospesa tra la Terra e il Cielo, tra la corruzione della materia e la perfezione delle idee divine. Una delle più potenti rappresentazioni di tale tensione è quel Giudizio universale realizzato da Michelangelo Buonarroti nella Cappella Sistina (1535-1541), ove un «terribile» Cristo giudice separa gli eletti e i dannati, in un groviglio di corpi definiti dal potere della forma. Alla grazia della figura l’artista toscano contrappone la Grazia divina che sola può operare la salvezza.
Poco più di mezzo secolo dopo, nella città dei Papi che aveva visto (1600) il Giubileo ma anche il rogo di Giordano Bruno, doveva sbocciare il talento di quel «Michelangelo da Caravaggio che fa a Roma cose meravigliose», come dichiarava un testimone intenditore di pittura. È una contesa a distanza fra i due maestri. Poco prima dello scoprimento del Giudizio (ottobre 1541) il pontefice Paolo III aveva affidato a Buonarroti affreschi nella Cappella Paolina. Nel primo è effigiata la
Conversione di Saulo (destinato a diventare l’apostolo Paolo, da cui quel Papa aveva preso il nome): precipitato da cavallo, l’antico persecutore è investito dalla luce di Cristo che scende di persona dall’alto dei cieli con la sua corte di angeli.
Invece, nella Conversione di san Pa
olo (1601) realizzata dall’altro Michelangelo, niente Gesù, niente angeli, niente azzurro celeste. Caravaggio trae dall’oscurità la figura del santo. Della rivelazione divina resta un raggio di luce, che nemmeno spezza il dominio della materia umana e animale. Ma tutto ciò «non attenua la certezza del miracolo, anzi la esalta», perché «la caduta stessa è il miracolo». Così Vittorio Sgarbi nel terzo volume del suo
Tesoro d’Italia pubblicato da Bompiani. Si è dunque passati dal Cielo alla Terra, come recita il titolo del libro.
Non più i santi come eroi magnificati dalla perfezione divina, ma come uomini tratti dalla vita di tutti i giorni. Forse, le cose sensibili sono ancora «ombre delle idee», come volevano i platonici riuniti intorno a Marsilio Ficino; ma come aveva indicato Bruno con il suo stesso martirio, di queste «ombre» non possiamo fare a meno, se vogliamo dare corpo ai nostri eroici (ed erotici) «furori».
Terribile non è più il Dio celeste,
ma la nostra terrestre quotidianità. È un dramma senza lieto fine; ma anche un’occasione: quella, per Caravaggio, di realizzare «una nuova visione del mestiere, una nuova visione della tecnica, una nuova visione del mondo», scrive Sgarbi. Come nella commedia bruniana del Candelaio, anche nel «teatro» delle tela caravaggesca «irrompe la vita di strada, quella dei vicoli fetidi e pieni di mendicanti che caratterizzavano Roma, Napoli e Milano». Ma è questa «pienezza di vita» che garantisce «l’improvvisa certezza di una verità che non si può discutere».
Mentre cambia la relazione tra arte e realtà, muta pure la natura della fede: quella caravaggesca è tutta interiore, fin troppo fragile di fronte alla terribilità del mondo ma proprio per questo preziosa. Giustamente Sgarbi richiama quella Medusa (quasi un autoritratto del Caravaggio da giovane) ove brillano due «occhi terrorizzati come di chi ha visto qualcosa di indicibile». E ci invita a seguire lo sguardo dell’artista «oltre la stessa immaginazione».