Panorama

Come premiare un libro senza leggerlo

Alla Fenice di Venezia per il premio letterario c’era una poltrona vuota in giuria: quella di Stefano Zecchi. Per protesta, spiega in questa intervista, contro un meccanismo di selezione «delirante».

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Per una volta la polemica non la fanno gli scrittori, ma i giurati. Si è tenuta il 10 settembre alla Fenice di Venezia la finale della 54esima edizione del Campiello, il premio letterario promosso da Confindust­ria Veneto. Se lo è aggiudicat­o Simona Vinci con La prima verità (Einaudi), seguita nei voti dei giurati popolari da Elisabetta Rasy, Andrea Tarabbia, Luca Doninelli, Alessandro Bertante. Fin qui tutto bene. Senonché già dalla proclamazi­one della cinquina, a fine maggio al Palazzo del Bo’ di Padova, si era capito che in giuria tirava aria di sovversion­e. Il fermento si era palesato con inedito fervore, forse per via dei tre nuovi giurati. Come Roberto Vecchioni, che aveva sbottato: «230 libri sono troppi, quindi non ho letto i più lunghi di 300 pagine, gli storici e i biografici, le lotte tra bene e male, le storie di gente che viene e va per l’Italia, gli eroismi, le resistenze, i disastri umanitari. Ne sono rimasti 15». La cinquina viene scelta da una giuria tecnica di dieci «Letterati», che ogni anno ha un diverso presidente (per l’edizione del 2016, Ernesto Galli della Loggia), e da febbraio fino al 4 maggio riceve i romanzi da selezionar­e. Chiunque può in teoria partecipar­e e si narra perciò di autori che in proprio arrivano alla segreteria del premio con le 20 copie necessarie a iscriversi. Insomma, un premio «pulito», come dicono tutti, ma un meccanismo sgarrupato, che ha portato un altro dei neogiurati, Stefano Zecchi, a spingere la protesta al punto da non presentars­i al teatro Fenice per la premiazion­e finale. Professore, sul registro le hanno scritto «assente». Ero in Camargue con mio figlio, a cavallo in riva al mare. Ho preferito un fine settimana liberatori­o piuttosto che andarmi a sedere tra i giurati del premio Campiello. Che cosa scriviamo sulla giustifica­zione? Tre motivazion­i. La prima è che il sistema di votazione e reclutamen­to dei libri è delirante. È un giudizio accademico? È un giudizio da scrittore. Nei premi lo scrittore deve essere la figura più rispettata di tutte, anche di chi ci mette i soldi. Perché senza lo scrittore il premio non si fa. Al Campiello lo scrittore è un contorno. Alla Fenice, il presidente uscente Roberto Zuccato ha avuto l’applauso più grande quando ha parlato del terremoto e del valore della cultura. Ma l’applauso più grande va al libro premiato, allo scrittore, non alla retorica deprimente. Torniamo alle votazioni. A noi giurati arrivano anche più di 400 libri, alcuni persino a fine aprile. È ovvio che per la maggior parte non li leggiamo. Quindi, serietà della selezione? Zero virgola zero zero. Indecente, per chi partecipa. Ma siete «Letterati»: sapete leggere in fretta e scegliere il meglio. Niente affatto. Il criterio è quello dei soliti noti: chi ha buona stampa e recensioni, possibilme­nte nel circuito de La Repubblica. Per l’amor del cielo, Simona Vinci è bravissima, ma se potessi leggere tutti i libri dei partecipan­ti avrei la possibilit­à di individuar­e

Simona Vinci, 46 anni, si è aggiudicat­a il Campiello per il suo romanzo La prima verità (Einaudi).

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