Niente sarà più come prima scissione.
Dopo il referendum il Pd andrà verso la Ma anche il centrodestra è alla ricerca di nuovi equilibri, tra la trazione moderata e quella populista. E perfino i grillini dovranno scegliere: movimento di governo o ortodossia?
Chi lo dice senza peli sulla lingua è Massimo D’Alema: «Se vincerà il Sì ci sarà una scissione nel Pd e nascerà un partito a sinistra sicuramente più grande di Sel. Se, invece, vincerà il No dovrò difendere Renzi dai suoi fan, come difesi Bettino Craxi». A parte il sarcasmo, D’Alema segnala un processo ineluttabile: il referendum, vada come vada, innescherà un meccanismo di composizione e ricomposizione degli schieramenti. A sinistra come a destra. Una dinamica che sarà favorita se, com’è probabile, la nuova legge elettorale che sostituirà l’Italicum avrà un impianto più proporzionale. Lo stesso Matteo Renzi è il primo a sapere che l’attuale Pd non ha futuro: «La condizione di un partito diviso su tutto è diventata insostenibile». Per cui il premier se vincerà il Sì modellerà il partito a sua immagine e somiglianza, «raserà al suolo l’opposizione interna» come dice Miguel Gotor, e andrà avanti nel suo progetto di partito della Nazione per contendere parte dei moderati al centrodestra; in caso contrario, con l’affermazione del No, si arroccherà nella segreteria del partito, tenterà di andare al più presto alle elezioni per decidere lui le liste elettorali e mantenere sotto la sua influenza i gruppi parlamentari. E il fatto che il premier abbia ventilato alla vigilia del voto l’intenzione di lasciare Palazzo Chigi qualunque sia l’esito referendario, dimostra che già pensa alle prossime elezioni che vuole guidare dalla roccaforte del partito. «Insomma» confida il renziano Andrea Marcucci a un amico «ci organizzeremo per sopravvivere». Quindi la scissione è quasi data per scontata. Del resto che nel Pd possano convivere due anime che si sono combattute senza esclusione di colpi nella competizione politica più importante degli ultimi tre anni è poco credibile.
Sul versante del centrodestra il referendum aprirà una serie di punti interrogativi legati alla fisionomia e, quindi, alla leadership dello schieramento: il centrodestra deve essere un polo a trazione moderata o populista? E con quale leadership? Silvio Berlusconi ha prospettato la sua intenzione di tornare in campo proprio in quest’ottica. E i nuovi virulenti attacchi di Umberto Bossi a Matteo Salvini fanno parte dello stesso capitolo. La questione non è di semplice soluzione anche perché i sondaggi - l’ultimo è di Alessandra Ghisleri - segnalano una nuova preminenza di Forza Italia sulla Lega. Naturalmente il processo sarà condizionato dal tipo di legge elettorale che prenderà il posto dell’Italicum e dal metodo con cui sarà individuata la nuova leadership. «Noi insieme a Giovanni Toti e Giorgia Meloni » ha confidato Salvini al vertice leghista «già dal 5 dicembre porremmo con forza la questione delle primarie e chi ci sta, ci sta». Come reagirà Berlusconi? C’è il rischio che un confronto affrontato senza tenere nel dovuto conto l’esigenza di mantenere unito lo schieramento possa produrre anche qui un processo di scomposizione e ricomposizione: la follia di come il centrodestra si è presentato diviso alle elezioni della capitale dovrebbe essere di monito a tutti. «O il bene dell’unità dello schieramento diventa patrimonio comune» osserva un Cav indispettito «o non lo è per nessuno».
Restano i grillini: anche loro non resteranno uguali dopo la prova referendaria. Dopo i mille addii, Beppe Grillo dovrà decidere se nel movimento deve prevalere l’anima più proiettata verso il governo o quella custode dell’ortodossia: le elezioni politiche incombono e il M5s non può permettersi di dare ulteriori esempi degli scontri che si stanno svolgendo all’ombra del Campidoglio. Inoltre lo stato maggiore grillino dovrà rendersi conto che in Italia esiste anche la giustizia «politica» a orologeria. Semprechè non voglia farne di nuovo le spese: la vicenda delle firme false in Sicilia, alla vigilia del referendum, docet.
I soliti