Splendori dipinti nel buio dell’arte
S’intitola il nuovo libro con cui Vittorio Sgarbi ci guida alla scoperta di grandi (a volte dimenticati) autori del ’600.
Dall’ombra alla luce. Da Caravaggio a Tiepolo
La conoscenza della lingua che si parla nella patria dei quadri e delle sculture talvolta risveglia non soltanto la nostra immaginazione ma anche i sensori del corpo. Così succede che le mutazioni delle epoche e degli stili siano percepite fisicamente. Per questo è efficace il titolo che Vittorio Sgarbi ha dato al suo ultimo libro, quarto e illustratissimo volume dei Tesori d’Italia: Dall’ombra alla luce. Da Caravaggio a Tiepolo (La Nave di Teseo). Nel percepire meglio questo lento dissolversi del buio seicentesco, salendo verso i chiarori del ‘700 (in un salire tuttavia solo apparente giacché forse si trattò di un declino) è perfetto lo sguardo corsaro e ravvicinato di Sgarbi.
Cedendo all’arte figurativa ciò che essa non può avere, la parola e l’energia del movimento, il critico ribadisce che questa è storia di opere e di artisti, una sequenza di medaglioni che esalta il principio generatore di ogni testo e contesto: l’individuo. Dove non esistono prodotti maggiori e minori, ma solamente capolavori riconosciuti tali dal flash emanato, magari in piena notte, quando si vede meglio, dal piacere della scoperta, da un ritrovamento inatteso. Tanto che anche un pittore meno noto può lecitamente ambire al primato, come il Genovesino con il suo Riposo nella fuga in Egitto: emozionante.
Dunque, in principio c’è un’ombra virale. La propaga Caravaggio, colui che non ha allievi ma seguaci e contagiati. Tra questi, Pieter Paul Rubens. La sua Santa notte è un richiamo alla Natività caravaggesca, eppure quell’appello è doppiamente vano: nell’attimo in cui stilisticamente si avvicinano, Rubens e Caravaggio già si allontanano, e dei due quadri oggi non ne resta che uno, perché quello del gran lombardo fu rubato a Palermo nel 1969. Poi ecco la declinazione realista-magica di un raffinato come Orazio Gentileschi, e la malagrazia di sua figlia, Artemisia. E ancora Diego Velàzquez in gara con Dio nel ritessere la pelle del mondo, e Guido Cagnacci nell’abbracciarla con passione erotica. Lungo viaggio, fino ai rovinati affreschi in Ca’ Rezzonico a Venezia, il vuoto, l’aria mossa e il celeste di Giambattista Tiepolo. E la copertina? Parliamone ora, alla fine. Vi è riprodotto un quadro di Phillip Peter Ross, pittore animalier tedesco che giunto a Tivoli non se ne andò più. Fu chiamato Rosa da Tivoli, la sua casa l’Arca di Noè, e queste sono le sue splendide capre. Per loro, con Sgarbi in ammirazione, apparire lì, in cima a tutto, vale come un risarcimento danni.
(Marco Di Capua)