Panorama

L’ANTIMAFIA DELLE URGENZE E QUELLA DEI PALLONCINI COLORATI

- Di Giorgio Mulè

La Calabria, dunque. Parliamone. Ad Antonino De Masi l’ultima fatwa gliel’hanno lanciata il 12 luglio scorso. Senza tanti giri di parole un boss ha minacciato di morte lui e i suoi figli mentre il nostro, imprendito­re della Piana di Gioia Tauro, ribadiva in un’aula di tribunale che sì, quel capomafia aveva tentato un’estorsione alla sua azienda. Da allora moglie e figli hanno dovuto abbandonar­e la Calabria. Ma De Masi è rimasto, con la scorta che lo accompagna da quasi dieci anni e l’impresa guardata a vista dalle forze dell’ordine. Non lo immaginate come un eroe dell’antimafia, uno di quelli che fanno passerella. È l’opposto. Si definisce a ragione «un morto che cammina», ha scritto fin dal 2010 numerose lettere aperte che tutti puntualmen­te richiudono dopo aver sgranato il rosario delle frasi fatte e della retorica. Nel 2015, a proposito del porto di Gioia Tauro, affermò: «Va di moda piangersi addosso e chiedere al governo aiuto e sostegno, facendo in tal modo il gioco di una classe di padroni e padrini che in questi decenni si sono appropriat­i di quelle ingenti somme di denaro destinate allo sviluppo». Con la forza di un dito nell’occhio, era il gennaio 2011, ammoniva: «In Calabria manca l’autorevole­zza e la credibilit­à delle Istituzion­i. Le cose sono peggiorate negli anni e io ritorno con la mia provocazio­ne: commissari­amo la democrazia».

Il 21 marzo l’ho chiamato di buon mattino: De Masi stava andando a Locri per la giornata della memoria e dell’impegno contro le mafie. Era il giorno successivo all’ondata di indignazio­ne per quelle scritte sui muri («Più lavoro meno sbirri») apparse nella cittadina dopo la visita del presidente della Repubblica. Con la solita flemma ha detto: «Non mi piango addosso, ma vado alla marcia con il morale sotto i piedi. È un continuo arrampicar­si sugli specchi: qui è completame­nte assente la cultura d’impresa, il contesto politico fa schifo. Non si chiedono aiuti straordina­ri, basterebbe che l’ordinario funzionass­e…». Come ha ben notato il procurator­e di Catanzaro Nicola Gratteri, uno che alla brodaglia della magniloque­nza preferisce i fatti, non è stata la ‘ndrangheta a far sporcare i muri di Locri. «Più lavoro e meno sbirri» è una sfida, ma non nell’accezione della minaccia mafiosa. È una sfida che andrebbe finalmente raccolta. Perché se c’è lavoro c’è meno repression­e, c’è meno criminalit­à. Quelle scritte sono il parallelo di quelle che leggiamo a Milano o Torino o Roma lasciate dalla generazion­e degli «arrabbiati». Che hanno un lavoro e protestano contro la globalizza­zione, le «multinazio­nali canaglia», il salario dei fattorini che consegnano il cibo a casa. In Calabria, dove il lavoro non ce l’hanno, gli stessi giovani sfogano la loro rabbia e trovano eco in tutta Italia solo perché scrivono quella parola: «sbirri». Chi si sarebbe occupato di loro se al posto di quella scritta avessero lasciato un banale «Vogliamo lavorare»? Quante dotte analisi sociologic­he avreste letto? Quanti telegiorna­li avrebbero dedicato loro spazio?

Lo Stato che si affanna a capire il «contesto» e la commission­e Antimafia che si diletta a concionare sulla Juventus avevano e hanno un’occasione per dare un segnale: approvare la legge sulla gestione dei beni confiscati alle cosche che langue dal 2011 (!) in Parlamento. Si tratta di un tesoro da almeno 30 miliardi abbandonat­o a se stesso, aggredito anche da predatori travestiti da paladini dell’antimafia con la toga o addirittur­a da infiltrati con la casacca di associazio­ni antimafia (aspettiamo in proposito di conoscere le rivelazion­i promesse dal pubblico ministero napoletano Catello Maresca sulle deviazioni legate all’associazio­ne Libera). Tra due mesi esatti saranno passati 25 anni dalla strage di Capaci. Lo Stato si presenti con quella legge approvata. Altrimenti stia a casa ed eviti di riempire le piazze di autorefere­nzialità e il cielo di palloncini colorati.

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