L’università araba che attira gli scienziati occidentali
La Kaust, King Abdullah University of Science in Arabia Saudita, è diventata un centro di eccellenza internazionale. Con finanziamenti sontuosi, qualità e meritocrazia. Un richiamo irresistibile per molti occidentali.
Iprimi a stupirsi di trovarsi lì a fare ricerca sono i diretti interessati. Tra gli scienziati italiani giunti nel corso degli ultimi cinque anni alla Kaust, King Abdullah University of Science Technology di Thuwal, cittadina sul mar Rosso a circa 80 chilometri da Gedda, nessuno immaginava di metter su un laboratorio d’avanguardia proprio in Arabia Saudita.
Invece, il Paese di solito associato al fondamentalismo religioso e a una società di stampo medievale, sta rapidamente cambiando faccia, e investe in ricerca scientifica come possibile alternativa a un’economia fondata solo sul petrolio. La Kaust, voluta da re Abdullah e inaugurata nel 2009, è l’esempio più eclatante di questo nuovo corso. In pochi anni è diventata un centro per la ricerca che scala le classifiche degli indici per le pubblicazioni scientifiche. Vi si conducono studi su nuovi materiali, nanotecnologie, scienze ambientali e marine, elettronica, bioingegneria, energie alternative... E rappresenta ormai una sorta di miraggio per ricercatori bravi ma intrappolati in sistemi universitari che forniscono scarsissime opportunità, tipo il nostro.
Oggi sono un centinaio gli italiani alla Kaust, tra professori, studenti, dottoranti, post-doc. Altri ne stanno arrivando. L’attrattiva della cittadella della scienza sul Mar Rosso si riassume in due elementi: stipendi buoni e mezzi per lavorare. «Quando sono venuto qui la prima volta non sapevo che cosa aspettarmi, ma sono rimasto colpito da quel che ho visto: una realtà in espansione con mezzi economici e strutturali neanche lontanamente paragonabili a quelli italiani, e un contesto internazionale per la ricerca e la vita sociale» dice Carlo Liberale, giunto alla Kaust nel 2014 con la famiglia per occuparsi di tecniche di microscopia ottica di nuova generazione per la visualizzazione di cellule. La realtà è stata anche meglio delle aspettative.
Al primo posto del gradimento c’è la possibilità di fare quello che in Italia, e ormai
in molti paesi europei, è quasi impossibile: mettere in piedi un laboratorio attrezzato, scegliersi una squadra e portare avanti liberamente la ricerca che si ha in mente. «La selezione iniziale è severa ma, una volta scelti, i mezzi per lavorare non sono paragonabili a quelli di alcuna università italiana o europea» conferma Andrea Falqui, che dopo sei anni all’Iit di Genova è volato alla Kaust, dove ha chiamato altri cinque ricercatori italiani. Fal-
qui si occupa di microscopia elettronica, lavora con strumenti che costano diversi milioni di euro ciascuno: nel campus ne sono installati diciotto. Come termine di paragone, i progetti biennali di ricerca italiani sono finanziati con una novantina di milioni di euro ogni due anni per tutti i settori, dall’archeologia alle nanotecnologie. La Kaust stanzia per il suo campus 800 milioni di dollari l’anno. Rispetto ad altre realtà per l’educazione universitaria nate nei paesi arabi, come la New York University e il Masdar Institute di Abu Dhabi, o la Weill Cornell di Doha, una sorta di franchising di università americane, questa si distingue per essere un’iniziativa dedicata alla ricerca più che all’insegnamento.
Non si tratta solo di soldi. «Non abbiamo pressioni per fare ricerca finalizzata, scoprire la cura del cancro o l’energia alternativa domattina» racconta Valerio Orlando, esperto di epigenetica (lo studio dell’interazione tra Dna e ambiente), che confessa di essere rimasto impressionato quando è arrivato, cinque anni fa, dalla visione a lungo termine scientifica e culturale. «Si investe sul merito e si aspetta che i risultati arrivino».
Per ora, comunque, anche chi ci lavora la descrive come una sorta di astronave atterrata su un pianeta alie- no. Nella cittadella, che è stato il primo campus di genere misto nel paese finanziato con un budget di 30 miliardi di dollari, si vive all’occidentale. Non c’è nessun obbligo di vestizione per le donne, che possono guidare, e non sono in vigore molte delle restrizioni che valgono per gli altri, come osservare gli orari della preghiera, mentre c’è come in tutto il paese il divieto di bere alcolici. Chi ha famiglia può contare su una casa grande e bella, scuole internazionali di ottimo livello per i figli, dall’asilo nido all’università, un lavoro o un’occupazione per il marito o la moglie giunti al seguito, clinica interna e accesso a ospedali nel resto del paese, assicurazione sanitaria.
Chi ci vive racconta una vita fuori dal campus diversa rispetto agli stereotipi.
«Mai percepita nessuna ostilità andando in giro. Hanno più pregiudizi gli occidentali nei confronti di chi viene dai paesi arabi che viceversa» osserva Falqui. «Per tanti versi l’Arabia Saudita mi ricorda l’Italia del sud del dopoguerra» dice Orlando. «Grandi riunioni familiari con mangiate nel week-end». A ricordare l’Italia è anche la burocrazia grottesca unita, come da noi, a una buona dose di inventiva per aggirarla.